Ugo Foscolo - Opera Omnia >>  Notizia intorno a Didimo chierico




 

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I. Un nostro concittadino mi raccomandò, mentr'io militava fuori d'Italia, tre suoi manoscritti affinché se agli uomini dotti parevano meritevoli della stampa, io rimpatriando li pubblicassi. Egli andava pellegrinando per trovare un'università « dove s'imparasse a comporre libri utili per chi non è dotto, ed innocenti per chi non è per anche corrotto; da che tutte le scuole, com'ei dicevami, erano piene o di matematici, i quali standosi muti s'intendevano fra di loro; o di grammatici che ad alte grida insegnavano il bel parlare e non si lasciavano intendere ad anima nata; o di poeti che impazzavano senza far nè piangere, nè ridere il mondo, e però come fatui nojosi, furono più giustamente d'ogni altro esiliati da Socrate, il quale, secondo Didimo, era dotato di spirito profetico, specialmente per le cose che accadono all'età nostra ».

II. L'uno de' manoscritti è forse di trenta fogli col titolo: Didymi clerici prophetæ minimi liber unicus: e sa di satirico. I pochi a' quali lo lasciai leggere, alle volte ne risero; ma non s'assumevano d'interpretarmelo. E mi dispongo a lasciarlo inedito per non essere liberale di noja a molti lettori che forse non penetrerebbero nessuna delle trecento trentatré allusioni racchiuse in altrettanti versetti scritturali, di cui l'opuscoletto è composto. Taluni fors'anche, presumendo troppo del loro acume, starebbero a rischio di parere commentatori maligni. Però s'altri n'avesse copia la serbi. Il farsi ministri degli altrui risentimenti, benché giusti, è poca onestà; massime quando pajono misti al disprezzo che la coscienza degli scrittori teme assai più dell'odio.

III. Bensì gli uomini letterati, che Didimo scrivendo nomina Maestri miei, lodarono lo spirito di veracità e d'indulgenza d'un altro suo manoscritto da me sottomesso al loro giudizio. E nondimeno quasi tutti mi vanno dissuadendo dal pubblicarlo; e a taluno piacerebbe ch'io lo abolissi. È un giusto volume dettato in greco nello stile degli Atti degli Apostoli; ed ha per titolo Διδυμου χληριχου υπομνηματπων βιβλια πεντε: e suona Didymi clerici libri memoriales quinque. L'autore descrive schiettamente i casi per lui memorabili dell'età sua giovenile educata dagli uomini letterati. Malgrado la sua naturale avversione contro chi scrive per pochi, ei dettò questi ricordi in lingua nota a rarissimi, affinché, com'ei dice, i soli colpevoli vi leggessero i propri peccati, senza scandalo delle persone dabbene, le quali non sapendo leggere che nella propria lingua, sono men soggette all'invidia, alla boria, ed alla VENALITÀ: ho contrassegnato quest'ultima voce, perché è mezzo cassata nel manoscritto. L'autore inoltre mi diè arbitrio di far tradurre quest'operetta, purché trovassi scrittore italiano che avesse più merito che celebrità di grecista. E siccome, dicevami Didimo, uno scrittore di tal peso lavora prudentemente a bell'agio e con gravità, i maestri miei avranno frattanto tempo, o di andarsene in pace, e non saranno più nominati né in bene né in male; o di ravvedersi di quegli errori, attraverso de' quali noi mortali giungiamo talvolta alla saviezza. Farò dunque che sia tradotto; e quanto alla stampa, mi governerò secondo i tempi, i consigli e i portamenti degli uomini dotti.

IV. Tuttavia, affinché i lettori abbiano saggio della operetta greca, ne feci tradurre parecchi passi, e li ho, quanto più opportunamente potevasi, aggiunti alle postille notate da Didimo nel suo terzo manoscritto, dove si contiene la versione del Viaggio sentimentale di Yorick; libro più celebrato che inteso; perché fu da noi letto in francese, o tradotto in italiano da chi non intendeva l'inglese: della versione uscita di poco in Milano, non so. Innanzi di dar alle stampe questa di Didimo, ricorsi nuovamente a' letterati pel loro parere. Chi la lodò, chi la biasimò di troppa fedeltà; altri la lesse volentieri come liberissima; e taluno s'adirò de' troppi arbitrii del traduttore. Molti, e fu in Bologna, avrebbero desiderato lo stile condito di sapore più antico: moltissimi, e fu in Pisa, mi confortavano a ridurla in istile moderno, depurandola sovra ogni cosa de' modi troppo toscani; finalmente in Pavia nessuno si degnò di badare allo stile; notarono nondimeno con geometrica precisione alcuni passi bene o male intesi dal traduttore. Ma io stampandola, sono stato accuratamente all'autografo: e solamente ho mutato verso la fine del capo XXXV un vocabolo; e un altro n'ho espunto dall'intitolazione del capo seguente perché mi parve evidente che Didimo contro all'intenzione dell'autore inglese offendesse, nel primo passo il Principe della letteratura fiorentina moderna, e nell'altro i nani innocenti della città di Milano.

V. Di questo libro, Didimo mi disse due cose, (da lui taciute, né so perché, nell'epistola a' suoi lettori) le quali pur giovano a intendere un autore oscurissimo anche a' suoi concittadini, e a giudicare con equità de' difetti del traduttore. La prima si è: « Che con nuova specie d'ironia, non epigrammatica, né suasoria, ma candidamente ed affettuosamente storica, Yorick da' fatti narrati in lode de' mortali, deriva lo scherno contro a molti difetti, segnatamente contro alla fatuità del loro carattere ». L'altra: « Che Didimo benché scrivesse per ozio, rendeva conto a sé stesso d'ogni vocabolo; ed aveva tanto ribrezzo a correggere le cose una volta stampate (il che, secondo lui, era manifestissima irriverenza a' lettori) che viaggiò in Fiandra a convivere con gli inglesi, i quali vi si trovano anche al dì d'oggi, onde farsi spianare molti sensi intricati; e lungo il viaggio si soffermava per l'appunto negli alberghi di cui Yorick parla nel suo Itinerario, e ne chiedeva notizie a' vecchi che lo avevano conosciuto; poi si tornò a stare a dimora nel contado tra Firenze e Pistoja, a imparare migliore idioma di quello che s'insegna nelle città e nelle scuole ».

VI. Ora per gli uomini dotti, i quali furono dalla lettura di que' manoscritti invogliati di sapere notizie del carattere e della vita di Didimo, e me ne richiedono istantemente, scriverò le scarse, ma veracissime cose che io so come testimonio oculare. Giova a ogni modo premettere tre avvertenze. Primamente: avendolo io veduto per pochi mesi e con freddissima famigliarità, non ho potuto notare (il che avviene a parecchi) se non le cose più consonanti o dissonanti co' sentimenti e le consuetudini della mia vita. Secondo: de' vizj e delle virtù capitali che distinguono sostanzialmente uomo da uomo, se pure ei ne aveva, non potrei dire parola: avresti detto ch'ei lasciandosi sfuggire tutte le sue opinioni, custodisse industriosamente nel proprio segreto tutte le passioni dell'animo. Finalmente: reciterò le parole di Didimo, poiché essendo un po' metafisiche, ciascheduno degli uomini dotti le interpreti meglio di me, e le adatti alle proprie opinioni.

VII. Teneva irremovibilmente strani sistemi; non però disputava a difenderli; e per apologia a chi gli allegava evidenti ragioni, rispondeva in intercalare: OPINIONI. Portava anche rispetto a' sistemi altrui, o fors'anche per non curanza, non movevasi a confutarli; certo è ch'io in sì fatte controversie, lo ho veduto sempre tacere, ma senza mai sogghignare, e l'unico vocabolo, opinioni, lo proferiva con serietà religiosa. A me disse una volta: Che la gran valle della vita è intersecata da molte viottole tortuosissime, e chi non si contenta di camminare sempre per una sola, vive e muore perplesso, né arriva mai a un luogo dove ognuno di que' sentieri conduce l'uomo a vivere in pace seco e con gli altri. Stimava fra le doti naturali all'uomo, primamente la bellezza; poi la forza dell'animo; ultimo l'ingegno. Delle acquisite, come a dire della dottrina, non faceva conto se non erano congiunte alla rarissima arte d'usarne. Lodava la ricchezza più di quelle cose ch'essa può dare; e la teneva vile, paragonandola alle cose che non può dare. Dell'Amore aveva in un quadretto un'immagine simbolica, diversa dalle solite de' pittori e de' poeti, su la quale egli aveva fatto dipingere l'allegoria di un nuovo sistema amoroso. Uno de' cinque libri de' quali è composto il manoscritto greco citato poc'anzi, ha per intitolazione: Tre Amori.

VIII. Da' sistemi e dalla perseveranza con che li applicava al suo modo di vivere, derivavano azioni e sentenze degne di riso. Riferirò le poche di cui mi ricordo. Celebrava don Chisciotte come beatissimo, perché s'illudeva di gloria e d'amore. Cacciava i gatti perché gli parevano più taciturni degli altri animali; li lodava nondimeno perché profittavano della società come i cani e della libertà quanto i gufi. Teneva gli accattoni per più eloquenti di Cicerone nella parte della perorazione, e periti fisionomi assai più di Lavater. Non credeva che chi abita accanto a un macellaro, o su le piazze de patiboli fosse persona da fidarsene. Credeva nell'ispirazione profetica, anzi presumeva di saperne le fonti. Incolpava il berretto, la vesta da camera e le pantofole de' mariti della prima infedeltà delle mogli. Ripeteva (e ciò più che riso moverà sdegno) che la favola d'Apollo scorticatore atroce di Marsia era allegoria sapientissima non tanto della pena dovuta agl'ignoranti prosontuosi, quanto della vendicativa invidia de' dotti. Su di che allegava Diodoro Siculo lib. III. n. 59, dove, oltre la crudeltà del vincitore, si narrano i bassi raggiri co' quali ei si procacciò la vittoria.

IX. E non dava migliori saggi del suo sapere. Asseriva, che le scienze erano una serie di proposizioni le quali aveano bisogno di dimostrazioni apparentemente evidenti ma sostanzialmente incerte, perché le si fondavano spesso sopra un principio ideale: che la geometria, non applicabile alle arti, era una galleria di scarne definizioni; e che, malgrado l'algebra, resterà scienza imperfetta e per lo più inutile finché non sia conosciuto il sistema incomprensibile dell'Universo. Sosteneva che la Arti possono più che le scienze far utile il vero a' mortali; e che la vera sapienza consiste nel giovarsi di quelle poche verità che sono certissime, perché o sono dedotte da una serie lunga di fatti, o sono sì limpide che non danno bisogno di dimostrazioni scientifiche. M'accorsi che leggeva quanti libri gli capitavano sott'occhio; ma non rileggeva da capo a fondo fuorché la Bibbia. Degli autori ch'ei credeva degni d'essere studiati, aveva tratte parecchie pagine, e ricucitele in un solo grosso volume. Sapeva a memoria molti versi di antichi poeti e tutto il poema delle georgiche. Era devoto di Virgilio; nondimeno diceva: che s'era fatto prestare ogni cosa da Omero, dagli occhi in fuori, negati dalla natura ad Omero, e conceduti bellissimi e acuti a Virgilio.. D'Omero aveva un busto e se lo trasportava di paese in paese. Cantava, e s'intendeva da per sé, quattro odi di Pindaro. Diceva che Eschilo era un bel rovo infuocato sopra un monte deserto; e Shakespeare, una selva incendiata che faceva bel vedere di notte, e che mandava fumo noioso di giorno. Paragonava Dante ad un gran lago circondato di burroni e di selve sotto un cielo oscurissimo, sul quale si poteva andare a vela in burrasca; e che il Petrarca lo derivò in tanti canali tranquilli ed ombrosi, dove possano sollazzarsi le gondole degli innamorati co' loro strumenti; e ve ne sono tante, che que' canali, dicea Didimo, sono oramai torbidi, o fatti gore stagnanti: tuttavia s'egli intendeva una sinfonia e nominava il Petrarca, era indizio che la musica gli pareva assai bella. Maggiore stranezza si era il panegirico ch'ei faceva di certo poemetto latino da lui anteposto perfino alle georgiche, perché, diceva Didimo, mi par d'essere a nozze con tutta l'allegra comitiva di Bacco. Didimo per altro beveva sempre acqua pura. Aveva non so quali controversie con l'Ariosto, ma le ventilava da sé; e un giorno mostrandomi dal molo di Dunkerque le lunghe onde con le quali l'Oceano rompea sulla spiaggia, gridò: Così vien poetando l'Ariosto. Tornandosi meco verso le belle colonne che adornano la cattedrale di quella città, si fermò sotto il peristilio, e adorò. Poi volgendosi a me, mi diede intenzione che sarebbe andato alla questua a pecuniare tanto da erigere una chiesa al PARACLETO e riporvi le ossa di Torquato Tasso; purché nessun sacerdote che insegnasse grammatica potesse ufficiarvi. Nel mese di giugno del 1804 pellegrinò da Ostenda sino a Montreuil per gli accampamenti italiani; ed a' militari, che si dilettavano di ascoltarlo, diceva certe sue omelie all'improvviso, pigliando sempre per testo de' versi delle epistole d'Orazio. Richiesto da un ufficiale perché non citasse mai le odi di quel poeta, Didimo in risposta gli regalò la sua tabacchiera fregiata d'un mosaico d'egregio lavoro, dicendo Fu fatto a Roma d'alcuni frammenti di pietre preziose dissotterrate in Lesbo.

X. Ma quantunque non parlasse che di poeti, Didimo scriveva in prosa perpetuamente; e se ne teneva. Scriveva anche arringhe, e faceva da difensore ufficioso a' soldati colpevoli sottoposti a' consigli di guerra; e se mai ne vedeva per le taverne, pagava loro da bere, e spiegava ad essi il Codice militare. Oltre ai tre manoscritti raccomandatimi, serbava parecchi suoi scartafacci; ma non mi lasciò leggere se non un solo capitolo di un suo Itinerario lungo la Repubblica Letteraria. In esso capitolo descriveva « un'implacabile guerra tra le lettere dell'abbiccì, e le cifre arabiche, le quali finalmente trionfarono con accortissimi stratagemmi, tenendo ostaggi l'a, la b, la x che erano andate ambasciatori, e quindi furono tirannicamente angariate con inesprimibili e angosciose fatiche ». Dopo il desinare, Didimo si riduceva in una stanza appartata a ripulire i suoi manoscritti ricopiandoli per tre volte. Ma la prima composizione, com'ei diceva, la creava all'opera seria o in mercato. Ed io in Calais lo vidi per più ore della notte a un caffè, scrivendo in furia al lume delle lampade del biliardo, mentr'io stava giocandovi, ed ei sedeva presso ad un tavolino, intorno al quale alcuni ufficiali questionavano di tattica, e fumavano mandandosi scambievolmente de' brindisi. Gl'intesi dire: Che la vera tribolazione degli autori veniva, a chi dalla troppa economia della penuria, e a chi dallo scialacquo dell'abbondanza; e ch'egli aveva la beatitudine di potere scrivere trenta fogli allegramente di pianta; e la maledizione di volerli poi ridurre in tre soli, come a ogni modo, e con infinito sudore faceva sempre.

XI. Ora dirò de' suoi costumi esteriori. Vestiva da prete; non però assunse gli ordini sacri; e si faceva chiamare Didimo di nome, e chierico di cognome; ma gli rincresceva sentirsi dar dell'abate. Fuor dell'uso de' preti, compiacevasi della compagnia degli uomini militari. Viaggiando perpetuamente, desinava a tavola rotonda con persone di varie nazioni; e se taluno (com'oggi s'usa) professavasi cosmopolita, egli si rizzava senz'altro. S'addomesticava alle prime; benché con gli uomini cerimoniosi parlasse asciutto; ed a' ricchi pareva altero; evitava le sette e le confraternite; e seppi che rifiutò due patenti accademiche. Usava per lo più ne' crocchi delle donne, però ch'ei le reputava più liberalmente dotate dalla natura di compassione e di pudore; due forze pacifiche le quali, diceva Didimo, temprano sole tutte le altre forze guerriere del genere umano. Era volentieri ascoltato, né so dove trovasse materie, perché alle volte chiacchierava per tutta una sera, senza dire parola di politica, di religione, o di amori altrui. Non interrogava mai per non indurre, diceva Didimo, le persone a dir la bugia: e alle interrogazioni rispondeva proverbi o guardava in viso chi gli parlava. Accoglieva lietissimo nelle sue stanze: al passeggio voleva andar solo, o parlava a persone che non aveva veduto mai, e che gli davano nell'idea: e se alcuno de' suoi conoscenti accostavasi a lui, si levava di tasca un libretto, e per primo saluto gli recitava alcuni squarci di traduzioni moderne de' poeti greci; e rimanevasi solo. Usava anche sentenze enigmatiche. Nessun frizzo; se non una volta, e per non ricaderci, rilesse i quattro evangelisti. Ma di tutti questi capricci e costumi di Didimo, s'avvedevano gli altri assai tardi; perch'ei non li mostrava, né li occultava; onde credo che venissero da disposizione naturale.

XII. Dissi che teneva chiuse le sue passioni; e quel poco che ne traspariva, pareva calore di fiamma lontana. A chi gli offeriva amicizia, lasciava intendere che la colla cordiale per cui l'uno si attacca all'altro, l'aveva già data a que' pochi ch'erano giunti innanzi. Rammentava volentieri la sua vita passata, ma non m'accorsi mai ch'egli avesse fiducia ne' giorni avvenire o che ne temesse. Chiamavasi molto obbligato a un don Jacopo Annoni curato, a cui Didimo aveva altre volte servito da chierico nella parrocchia d'Inverigo, e stando fuori di patria, carteggiava unicamente con esso. Mostravasi gioviale e compassionevole, e benché fosse alloramai intorno a' trent'anni, aveva aspetto assai giovanile; e forse per queste ragioni Didimo tuttoché forestiero, non era guardato dal popolo di mal'occhio, e le donne passando gli sorridevano, e le vecchie si soffermavano accanto a una porticciuola a discorrere seco, e tutti i bambini, de' quali egli si compiaceva, gli correvano lietissimi attorno. Ammirava assai: ma più con gli occhiali, diceva egli, che col telescopio: e disprezzava con taciturnità sì sdegnosa da far giusto e irreconciliabile il risentimento degli uomini dotti. Aveva per altro il compenso di non patire d'invidia, la quale, in chi ammira e disprezza non trova mai luogo.

XIII. Insomma pareva uomo che essendosi in gioventù lasciato governare dall'indole sua naturale, s'accomodasse, ma senza fidarsene, alla prudenza mondana. E forse aveva più amore che stima per gli uomini, però non era orgoglioso né umile. Parea verecondo, perché non era né ricco né povero. Forse non era avido né ambizioso, perciò parea libero. Quanto all'ingegno, non credo che la natura l'avesse moltissimo prediletto, né poco. Ma l'aveva temprato in guisa da non potersi imbevere degli altrui insegnamenti; e quel tanto che produceva da sé, aveva certa novità che allettava, e la primitiva ruvidezza che offende. Quindi derivava in esso per avventura quell'esprimere in modo tutto suo le cose comuni; e la propensione di censurare i metodi delle nostre scuole. Inoltre sembravami, ch'egli sentisse non so qual dissonanza nell'armonia delle cose del mondo: non però lo diceva. Dalla sua operetta greca si desume quanto meritamente si vergognasse della sua querula intolleranza. Ma pareva, quando io lo vidi, più disingannato che rinsavito; e che senza dar noja agli altri, se ne andasse quietissimo e sicuro di sé medesimo per la sua strada, e sostandosi spesso, quasi avesse più a cuore di non deviare, che di toccare la meta. Queste ad ogni modo sono tutte mie congetture.

XIV. Avendolo io d'allora in poi lasciato in Amersfort, e desiderando di dargli avviso del giudizio de' Maestri suoi intorno a' tre manoscritti da me recati in Italia, scrissi ad Inverigo a domandarne novelle al Reverend. Don Jacopo Annoni; e perché questi s'era trasferito da molto tempo in una chiesa su' colli del lago di Pusiano, presso la villa Marliani, lo visitai nell'estate dell'anno scorso: né ho potuto riportare dalla mia gita se non i lineamenti di Didimo giovinetto. Quel buon vecchio sacerdote, regalandomi il disegno che ho posto in fronte a questa notizia, mi disse afflittissimo: È pur molto tempo ch'io non so più dove sia, né se viva.

XV. Mi diede inoltre copia di un epitaffio che Didimo s'era apparecchiato molti anni innanzi; ed io lo pubblico, affinché s'egli mai fosse morto, ed avesse agli ospiti suoi lasciato tanto da porgli una lapide, lo facciano scolpire sovr'essa.

DIDYMI · CLERICI
VITIA · VIRTVS · OSSA
HIC · POST · ANNOS · †††
CONQUIESCERE COEPERE



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Ugo Foscolo - Opere II, prose e saggi", edizione diretta da Franco Gavazzeni con la collaborazione di Gianfranca Lavezzi, Elena Lombardi e Maria Antonietta Terzoli, Einaudi-Gallimard, Torino, 1995







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