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[I]

ALLA SERA

Forse perchè della fatal quïete
Tu sei l'immago a me sí cara vieni
O Sera! E quando ti corteggian liete
Le nubi estive e i zeffiri sereni,

E quando dal nevoso aere inquïete
Tenebre e lunghe all'universo meni
Sempre scendi invocata, e le secrete
Vie del mio cor soavemente tieni.

Vagar mi fai co' miei pensier su l'orme
Che vanno al nulla eterno; e intanto fugge
Questo reo tempo, e van con lui le torme

Delle cure onde meco egli si strugge;
E mentre io guardo la tua pace, dorme
Quello spirto guerrier ch'entro mi rugge.



[II]

[ NON SON CHI FUI; PERÍ DI NOI GRAN PARTE ]

Non son chi fui; perí di noi gran parte:
Questo che avanza è sol languore e pianto.
E secco è il mirto, e son le foglie sparte
Del lauro, speme al giovenil mio canto.

Perchè dal dí ch'empia licenza e Marte
Vestivan me del lor sanguineo manto,
Cieca è la mente e guasto il core, ed arte
La fame d'oro, arte è in me fatta, e vanto.

Che se pur sorge di morir consiglio,
A mia fiera ragion chiudon le porte
Furor di gloria, e carità di figlio.

Tal di me schiavo, e d'altri, e della sorte,
Conosco il meglio ed al peggior mi appiglio,
E so invocare e non darmi la morte.



[III]

PER LA SENTENZA CAPITALE PROPOSTA NEL GRAN-CONSIGLIO CISALPINO CONTRO LA LINGUA LATINA

Te nudrice alle muse, ospite e Dea
Le barbariche genti che ti han doma
Nomavan tutte; e questo a noi pur fea
Lieve la varia, antiqua, infame soma.

Chè se i tuoi vizi, e gli anni, e sorte rea
Ti han morto il senno ed il valor di Roma,
In te viveva il gran dir che avvolgea
Regali allori alla servil tua chioma.

Or ardi, Italia, al tuo Genio ancor queste
Reliquie estreme di cotanto impero;
Anzi il Toscano tuo parlar celeste

Ognor più stempra nel sermon straniero,
Onde, più che di tua divisa veste,
Sia il vincitor di tua barbarie altero.



[IV]

[ PERCHÈ TACCIA ]

Perchè taccia il rumor di mia catena
Di lagrime, di speme, e di amor vivo,
E di silenzio; chè pietà mi affrena
Se con lei parlo, o di lei penso e scrivo.

Tu sol mi ascolti, o solitario rivo,
Ove ogni notte amor seco mi mena,
Qui affido il pianto e i miei danni descrivo,
Qui tutta verso del dolor la piena.

E narro come i grandi occhi ridenti
Arsero d'immortal raggio il mio core,
Come la rosea bocca, e i rilucenti

Odorati capelli, ed il candore
Delle divine membra, e i cari accenti
M'insegnarono alfin pianger d'amore.



[V]

[ COSÍ GL'INTERI GIORNI ]

Cosí gl'interi giorni in lungo incerto
Sonno gemo! ma poi quando la bruna
Notte gli astri nel ciel chiama e la luna,
E il freddo aer di mute ombre è coverto;

Dove selvoso è il piano più deserto
Allor lento io vagabondo, ad una ad una
Palpo le piaghe onde la rea fortuna,
E amore, e il mondo hanno il mio core aperto.

Stanco mi appoggio or al troncon d'un pino,
Ed or prostrato ove strepitan l'onde,
Con le speranze mie parlo e deliro.

Ma per te le mortali ire e il destino
Spesso obblïando, a te, donna, io sospiro:
Luce degli occhi miei chi mi t'asconde?



[VI]

[ MERITAMENTE ]

Meritamente, però ch'io potei
Abbandonarti, or grido alle frementi
Onde che batton l'alpi, e i pianti miei
Sperdono sordi del Tirreno i venti.

Sperai, poichè mi han tratto uomini e Dei
In lungo esilio fra spergiure genti
Dal bel paese ove or meni sí rei,
Me sospirando, i tuoi giorni fiorenti,

Sperai che il tempo, e i duri casi, e queste
Rupi ch'io varco anelando, e le eterne
Ov'io qual fiera dormo atre foreste,

Sarien ristoro al mio cor sanguinente;
Ahi vota speme! Amor fra l'ombre inferne
Seguirammi immortale, onnipotente.



[VII]

[ SOLCATA HO FRONTE ]

Solcata ho fronte, occhi incavati intenti,
Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto,
Labbro tumido acceso, e tersi denti,
Capo chino, bel collo, e largo petto;

Giuste membra; vestir semplice eletto;
Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti;
Sobrio, umano, leal, prodigo, schietto;
Avverso al mondo, avversi a me gli eventi:

Talor di lingua, e spesso di man prode;
Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso,
Pronto, iracondo, inquïeto, tenace:

Di vizi ricco e di virtù, do lode
Alla ragion, ma corro ove al cor piace:
Morte sol mi darà fama e riposo.



[VIII]

[ E TU NE' CARMI AVRAI PERENNE VITA ]

E tu ne' carmi avrai perenne vita
Sponda che Arno saluta in suo cammino
Partendo la città che dal latino
Nome accogliea finor l'ombra fuggita.

Già dal tuo ponte all'onda impaurita
Il papale furore e il ghibellino
Mescean gran sangue, ove oggi al pellegrino
Del fero vate la magion si addita.

Per me cara, felice, inclita riva
Ove sovente i pie' leggiadri mosse
Colei che vera al portamento Diva

In me volgeva sue luci beate,
Mentr'io sentia dai crin d'oro commosse
Spirar ambrosia l'aure innamorate.



[IX]

[ A ZACINTO ]

Né più mai toccherò le sacre sponde
Ove il mio corpo fanciulletto giacque,
Zacinto mia, che te specchi nell'onde
Del greco mar da cui vergine nacque

Venere, e fea quelle isole feconde
Col suo primo sorriso, onde non tacque
Le tue limpide nubi e le tue fronde
L'inclito verso di colui che l'acque

Cantò fatali, ed il diverso esiglio
Per cui bello di fama e di sventura
Baciò la sua petrosa Itaca Ulisse.

Tu non altro che il canto avrai del figlio,
O materna mia terra; a noi prescrisse
Il fato illacrimata sepoltura.



[X]

[ IN MORTE DEL FRATELLO GIOVANNI ]

Un dí, s'io non andrò sempre fuggendo
Di gente in gente, me vedrai seduto
Su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
Il fior de' tuoi gentili anni caduto.

La Madre or sol suo dí tardo traendo
Parla di me col tuo cenere muto,
Ma io deluse a voi le palme tendo
E sol da lunge i miei tetti saluto.

Sento gli avversi numi, e le secrete
Cure che al viver tuo furon tempesta,
E prego anch'io nel tuo porto quïete.

Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, almen le ossa rendete
Allora al petto della madre mesta.



[XI]

[ ALLA MUSA ]

Pur tu copia versavi alma di canto
Su le mie labbra un tempo, Aonia Diva,
Quando de' miei fiorenti anni fuggiva
La stagion prima, e dietro erale intanto

Questa, che meco per la via del pianto
Scende di Lete ver la muta riva:
Non udito or t'invoco; ohimè! soltanto
Una favilla del tuo spirto è viva.

E tu fuggisti in compagnia dell'ore,
O Dea! tu pur mi lasci alle pensose
Membranze, e del futuro al timor cieco.

Però mi accorgo, e mel ridice amore,
Che mal ponno sfogar rade, operose
Rime il dolor che deve albergar meco.



[XII]

[ CHE STAI? ]

Che stai? già il secol l'orma ultima lascia;
Dove del tempo son le leggi rotte
Precipita, portando entro la notte
Quattro tuoi lustri, e obblio freddo li fascia.

Che se vita è l'error, l'ira, e l'ambascia,
Troppo hai del viver tuo l'ore prodotte;
Or meglio vivi, e con fatiche dotte
A chi diratti antico esempi lascia.

Figlio infelice, e disperato amante,
E senza patria, a tutti aspro e a te stesso,
Giovine d'anni e rugoso in sembiante,

Che stai? breve è la vita, e lunga è l'arte;
A chi altamente oprar non è concesso
Fama tentino almen libere carte.


EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Ugo Foscolo - Opere I, poesie e tragedie", edizione diretta da Franco Gavazzeni con la collaborazione di Maddalena Lombardi e Franco Longoni, Einaudi-Gallimard, Torino, 1994







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