Ugo Foscolo - Opera Omnia >>  Discorso storico sul testo del Decamerone




 

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AL SIGNORE

RUGGIERO WILBRAHAM.

Se questa Edizione per le cure ch'altri vi pose ad abbellirla si meriti di starsi fra le rare adunate de lei, Signor mio, non mi attento di dirlo. Piacciale tuttavia di riporvela sì che ricordi quanto mi fu cortese la sua libreria. E s'ella, Signor mio, scorrerà il Discorso su le vicende del Decamerone, si ricorderà fors'anche del tempo ch'io coniversando con lei, imparava molto su le mutazioni e le origini delle lingue; e per le sue accoglienze ospitali io sentiva ad un'ora e come e quanto io le sarei amico grato e leale finchè avrei vita e memoria.

UGO FOSCOLO

DISCORSO STORICO

SUL

TESTO DEL DECAMERONE

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Per talem, qualem descripsimus, narrationem existimamus -- rerum intellectualium, non minus quam civilium, motus et perturbationes vitiaque et virtutes notari posse.
BACONIS, de Dign. et Aug. Scient. ii, 4.
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A ME, anzi che spendere alcuni giorni intorno ad un libro abbondantissimo d'esemplari, sarebbe stata più grata assai l'occasione di attendere ad altre opere del Boccaccio neglette con danno sì della lingua e sì della storia di quella età. Né io da prima intendeva se non se di consigliare il libraio Inglese il quale m'interrogò intorno alla più corretta fra le edizioni delle novelle; ed io gli additai la Veneziana del Vitarelli. Poi m'accorsi che quegli uomini dotti i quali la procurarono e quasi schietta d'errori, v'innestarono per sistema un'ortografia che al parer mio non era propria al secolo dell'autore, nè fu mai geniale alla lingua Italiana. Frattanto il libraio aveva già fuor di torchio alcuni fogli composti sovr'essa, e si contentò di rifarli di nuovo; ed io per fargli alcuna ammenda del mio poco savio suggerimento, promisi di rivedere le prove. Così senza quasi avvedermene m'addossai l'obbligo difficilissimo di rintracciare la schietta lezione d'un libro, sul quale i critici si sono agguerriti l'un contro l'altro da quasi cinquecent'anni. E però mi sono studiato di derivare norme alla mia correzione, non tanto dalle autorità d'esempi o di leggi grammaticali, quanto da tutta la storia del testo del Decamerone: ed io la verrò ricordando; sì perchè le ragioni efficaci in tutte le cose, e più nelle lingue, emergono solamente da' fatti; e sì perchè da' costumi ed aneddoti letterari d'altri secoli appariranno le condizioni presenti dell'Italia, ove forse la ristampa di una raccolta di novelle tornerà ad affaccendare accademie, concili, e pontefici, e provocherà ambascerie, mediazioni e trattati.

Quando la pestilenza del 1348 in Firenze diede occasione al Boccaccio di scrivere le Novelle, egli aveva da trentacinque anni; e pare ch'ei le pubblicasse spicciolate o a dieci per volta, da che sul principio della quarta giornata ei risponde a que' lettori che le avevano censurate. E bench'ei professasse di scriverle in Fiorentin volgare -- e in istilo umilissimo e rimesso quanto più si possono, (1) -- pur nondimeno ei confessa ch'ei vi pose studio e tempo, e dava alla penna e alla man faticata riposo, -- colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica lo aveva col suo aiuto al desiderato fine condotto. (2) Però sembrano verosimili i computi di chi afferma ch'ei pubblicasse il Decamerone otto anni dopo ch'ei l'ebbe incominciato. (3) D'allora in poi, ed era nel 1353, non trovo indizio ch'ei ne pigliasse altra cura; onde alcuni scrittori del secolo XVI narravano ch'ei non ne faceva gran capitale, e s'aspettava gloria dalle altre opere sue. (4) Il Petrarca, non che mai ricevere le novelle dell'autore che pur gli mandava ogni sua cosa, le vide molti anni dopo per accidente: e non ne lodò che il principio per la descrizione della peste, e la fine per l'ultima novella scritta a inculcare obbedienza alle mogli: anzi a redimerla dall'indegna compagnia delle altre, la tradusse in Latino. (5) La loro età adulava nell'uno e nell'altro di que' nobili ingegni l'ambizione di parlare in una lingua già morta a' loro concittadini, fra' quali un'altra già nata cresceva ricca e vigorosissima. Taluni stimavano il Boccaccio secondo, nella poesia Latina, al Petrarca, ma eguale e superiore agli antichi e a Virgilio, segnatamente in certe egloghe oggi dimenticate: vedi qui infrascritto il frammento d'una lettera di Coluccio Salutati, (6) dottissimo tra' loro contemporanei. Il Boccaccio fu ad ogni modo meno sdegnoso della sua lingua materna, e la promosse con altri scritti e molto più con le sue lezioni sopra il poema di Dante. Ma come credere ch'egli immaginasse mai che i grammatici avrebbero considerate le sue novelle per più di tre secoli come uniche sorgenti d'idioma e di stile, s'ei non che depurarle da' pochi errori suoi propri e dagl'infiniti de' copiatori, non lasciò dopo di sè un esemplare che servisse poi di modello? E certo quand'ei moriva aveva già da dieci o dodici anni distrutto il testo autografo del libro che doveva allettare l'ammirazione degli uomini in guisa da disviarla dagli altri suoi meriti forse maggiori.

Verso a la fine dell'età sua la povertà che è più grave nella vecchiaia, e lo stato turbolento di Firenze gli fecero rincrescere la vita sociale, (7) e rifuggiva alla solitudine; (8) ed allora l'anima sua generosa ed amabile era invilita e intristita da' terrori della religione. Vivevano a que' dì due Sanesi che poi furono venerati sopra gli altari. L'un d'essi era letterato e monaco Certosino, e lo trovi citato dal Fabricio Sanctus Petrus Petronus. (9) L'altro era quel Giovanni Colombini, mercatante di professione, che fondò l'Ordine de' Gesuati i quali arricchirono Siena con le manifatture de' loro conventi, e il territorio Milanese con l'invenzione de' prati irrigatori; ma furono poi rovinati dalle troppe ricchezze, e aboliti non molto dopo la istituzione de' Gesuiti, che si giovarono della esperienza di tutti gli Ordini religiosi e ridussero a sistema concatenato le arti di tutti i monaci e frati conosciuti fino a que' giorni. Il fondatore de' Gesuati, se bene ignorante fino alla virilità, fu dotato di dottrina ispirata, e scrisse la Vita del Beato Petroni. (10) I Bollandisti allegano che il manoscritto del nuovo Santo, smarritosi per due secoli e mezzo, capitò miracolosamente alle mani d'un Certosino che lo tradusse dall'Italiano in Latino, e nel 1619 lo dedicò a un Cardinale de' Medici. (11) Forse il Colombini non ha mai scritto: e il biografo de' Santi nel secolo XVII ricavò le notizie de' miracoli, registrati nelle cronache e nelle altre memorie del XIV; e per esagerare la conversione miracolosa del Boccaccio pervertì una lettera del Petrarca, che nelle sue Opere Latine ha per titolo De vaticinio Morientium. Il beato Petroni morendo aveva infatti commesso, verso l'anno 1360, a un frate d'intimare al Boccaccio che lasciasse da parte gli studi, e s'apparecchiasse alla morte; e il Boccaccio ne scrisse atterrito al Petrarca, il quale rispose: "Fratel mio, la tua lettera. m'ha riempiuto la mente d'orribili fantasie, ed io leggevala combattuto e da grande stupore e da grande afflizione. Or come poteva io senz'occhi piangenti vederti piangere e ricordare la tua prossima morte, mentre che io, non bene informato, del fatto, attendeva ansiosissimo alle tue parole? Ma oramai che ho scoperta la cagione de' tuoi terrori, e ci ho pensato un po' sopra, non ho più nè malinconia nè stupore. -- Tu scrivi come un non so chi Pietro di Siena, celebre per religione, ed anche per miracoli, predisse a noi due molte sorti future: e per fede della verità ti mandò a significare alcune cose passate che tu ed io abbiamo tenute secrete ad ogni uomo; ed egli che non ci ha mai conosciuti, nè fu mai conosciuto da noi, pur le sapeva come s'ei ci avesse veduto nell'anima. Gran cosa è questa, purchè sia vera. Ma l'arte di adonestare le imposture col velo della religione e della santimonia, è frequentatissima e antica. Coloro che l'usano esplorano l'età, l'aspetto, gli occhi,i costumi dell'uomo, le sue giornaliere consuetudini, gli studi, i moti, lo stare, il sedere, la voce, il discorso e più ch'altro le intenzioni e gli affetti; e derivano vaticini ascritti ad ispirazione divina. Or s'ei morendo ti predisse la morte, anche Ettore in altri tempi la predisse morendo ad Achille; e l'Orode Virgiliano a Mesenzio; e il Cheramene di Cicerone ad Erizia; e Calano ad Alessandro; e Possidonio, l'illustre filosofo, mo rendo nominò sei de' suoi coetanei presti a seguirlo sotterra, e chi morrebbe primo e chi dopo. Non importa il disputare per ora intorno alla verità ed alla origine di simili profezie; nè a te, quando pur anche codesto tuo spaventatore (terrificator hic taus) ti pronosticasse il vero, importa l'affliggerti. -- Che? se costui non tel mandava a far sapere, avresti tu forse ignorato che non t'avanza molto spazio di vita? e s'anche tu fossi giovane, la morte non guarda ad età". (12) Rincrescemi di essere uscito alquanto fuori strada, e insieme di non aver tradotto se non pochi passi, e assai debolmente, di quella lettera del Petrarca, lunghissima ed eloquente, nella quale ei congiunge con mirabile felicità i sovrumani conforti della religione cristiana alla virile filosofia degli antichi. Ma nè pure il Petrarca guardava sempre in faccia la morte con occhio tranquillo; e se non gli venne fatto di liberare la mente dell'amico suo da' sogni superstiziosi, è da incolparne l'umana natura tenacissima de' semi sparsivi dalla nonna e dalla balia, cha rigermogliano nel cuore de' vecchi a guisa di spine. Il Boccaccio sopravvisse più di dodici anni al pronostico, travagliandosi ad impetrare perdono da' frati, contro de' quali diresti ch'egli abbia scritto le più argute delle novelle. Morì nel 1375 d'anni sessantadue, e lasciò tutti i suoi libri e manoscritti al suo confessore —-- Ancora lascio che tutti i miei libri sieno dati e conceduti ad ogni suo piacere al venerabile mio maestro Martino dell'ordine di Frati Heremitani di Santo Agostino e del convento di Sancto Spirito di Firenze li quali esso debba e p... (forse possa) tenere ad uso suo mentre vive, sì veramente che il decto maestro Martino sia tenuto e debba pregare idio per l'anima mia e oltre far copia ad qualunque persona li volesse di quegli libri li quali... composti (13)." Or può egli credersi che il Decamerone fosse fra que' libri composti da lui, e lasciati al suo confessore per uso del convento, e sotto condizione di lasciarne pigliar copia a chi la chiedesse? Questa sua volontà tutta scritta di sua mano fu pubblicata guasta dal tempo in una edizione procurata dagli Accademici della Crusca. Crellono ch'ei l'avesse apparecchiata molt'amii innanzi il testamento Latino rogato verso il tempo della sua morte, e dove la stessa clausula trovasi letteralmente tradotta, e un'altra nuova, la quale prova, a mio credere, oltre ogni dubbio, che l'autore aveva più tempo innanzi aboliti gli autografi del Decamerone. Niuno forse, dopo Aristofane, ricavò tanto amaramente il ridicolo dalla sfacciataggine degli oratori ignoranti e dalla credulità d'ignoranti ascoltatori quanto il Boccaccio con la pazza predica di Frate Cipolla, dopo ch'ei pellegrinò in tutti i paesi che sono e non sono nel globo terracqueo a trovare reliquie di Santi, e farle adorare per danari a Certaldo (14). E nondimeno, il Boccaccio morendo diceva, —d'avere da gran tempo cercato per sante reliquie in diverse parti del mondo (15) -- -- e le lasciava alla divozione del popolo in un convento di frati.

E non per tanto, senz'altro appoggio se non se l'unico delle lor congetture, il Salviati e i Deputati alla correzione del Decamerone si fondarono a emendare la lezione del testo su l'opinione, che il Boccaccio avesse lasciato due copie di propria mano, ma varie, e dalle quali essi stimarono originate le varianti de' codici (16). Molte ad ogni modo di quelle varianti sono ascritte alla ignoranza degli amanuensi, e molte altre alla grazia nativa dell'idioma Fiorentino, che la grammatica de' non Toscani scambia per meri sgrammaticamenti. Or a me pare che tanto le une quanto le altre derivassero dalla poca cura che il Boccaccio, essendosi pentito dell'opera sua, si pigliò a ripulirla qua e là ed a ricorreggere le copie cavate dagli amici suoi, e dalle quali poi si moltiplicarono i susseguenti esemplari. Ad ogni modo quanti oggi ne restano, e quanti i critici nel secolo XVI avevano sotto a' lor occhi, furono scritti nel secolo XV, da tre soli in fuori -- l'uno trovato nella libreria degli Estensi, e il Muratori lo crede del secolo dell'autore; ma non ha data certa -- l'altro posseduto da un gentiluomo Fiorentino, fu ricopiato nel 1396; e quand'anche la data non fosse apocrifa, è tuttavia posteriore di vent'anni e più alla morte dell'autore -- il terzo, e l'unico a cui l'uomo possa fidarsi, fu scritto nel 1384 dal Mannelli figlioccio del Boccaccio; ma rimase codice occulto ed inutile per lunghissimo tempo. Il Mannelli ebbe di certo sott'occhio un testo ch'ei teneva per autentico insieme e inesatto; ma non che descriverlo, non ne palesa l'origne, e appena lo accenna qua e là con la postilla sic textus. E s'ei pur l'ebbe mai dal Boccaccio, ei non domandò, o non ottenne la correzione di molti sbagli ch'egli liberamente appone all'autore. Ricopiando con la diligenza scrupolosa di un amanuense, e con l'acume di un critico ei di rado, se pur mai, s'assume a correggere; bensì nota laconicamente ne' margini, deficiebat, e suggerisce la parola probabile al senso; tal'altra volta nota, superfluum, e spesso par che rimproveri all'autore la sintassi intralciata o sconnessa: Constructo in zoccoli, Messer Giovanni. Alle volte nota la poca verosimiglianza del fatto -- Messer Giovanni, questo non cred'io, né anche tu. E buffa, ch'io nol credo. Due novelle incominciano con le stesse sentenze e parole; e il Mannelli scrive: Nota che questo medesimo prolago usa l'autore di sopra nella decima novella decta da Pampinea, il che pare vitioso molto. (17).— Or l'autore non avrebbe egli ripulito le sue novelle di queste e simili macchie a pochi tratti di penna, se gli scrupoli di coscienza, sì manifesti verso la fine dell'età sua, non ve lo avessero sconfortato? Diresti bensì che il Mannelli patisse mal volentieri che l'amico suo si fosse rappacificato co' frati; e dove ei li trova derisi o malarrivati, ei nota ne' margini. E pe' chierici. E pure pe' frati. E pur nota il ver de' frati. Nota pe' frati bugiardi. Nota pe' frati astiosi che tutte la donne vorrebbon per loro. Abate ingordo, tu non l'avrai. Frati miei dolciati, se avete scudi sien da voi imbracciati, ch'or bisogno n'avete. Amen, e anche peggio; e via così dalla prima all'ultima carta del codice. E forse capitò in potere di alcuni divoti; da che non è da trovarlo ricordato mai per quasi due secoli.

Frattanto, benchè niuno mai sospettasse che l'autore avesse abolito gli autografi del Decamerone, ogni critico disperò di vederli da che quel convento dove i manoscritti del Boccaccio rimanevano per legato, fu nell'anno 1471 incenerito dal fuoco. Inoltre verso la fine di quel secolo il popolo Fiorentino fu persuaso da Fra Girolamo Savonarola a fare una piramide altissima con quante pitture e statue antiche e moderne, ed arpe e liuti e stromenti d'ogni maniera potè raccogliere per le case, e codici e libri Latini e Italiani, specialmente le opere del Boccaccio (18); e per celebrare divotamente l'ultimo giorno del carnevale arsero la piramide su quella piazza dove nella primavera seguente al loro malfortunato predicatore toccò d'essere bruciato vivo, e le sue ceneri gittate nell'Arno.

Ma innanzi l'incendio del convento, l'arte della stampa avea già incominciato a moltiplicare gli esemplari del Decamerone. Chi fra' libri rari d'un Cardinale lodò un esemplare stampato nel 1449, o sognava o adulava (19); bensì parecchi sono tuttavia da vedersi usciti nel 1470. A questo anno il Fabricio assegna una edizione Fiorentina, ed altri allo stesso anno una Veneta. Non so a quale delle due gl'intendenti abbiano conferito il nome di principe; bensì e a queste, e alle tredici posteriori e registrate da' Fiorentini fino alla celebre del 1527, fu poscia imputato lo strazio della lingua delle Novelle (20). Or da che furono primamente stampate nella loro città, o quando tutti i manoscritti del Boccaccio pur esistevano, ed ogni uomo in vigore del testamento poteva cavarne copia, è da dire, --— o che il Decamerone non fosse fra que' libri -- o che que' primi editori non si dessero pensiero di accomodare la stampa agli originali.

Se non che passavano alloramai cent'anni da che la gara crescente di sdrivere in latino, e gli studi indefessi su gli autori Greci e Romani, avevano lasciato irrugginire la lingua viva chiamata, quasi per disprezzo, volgare. Nè perchè Lorenzo de' Medici e gli amici suoi si studiassero di ricoltivarla, potevano fare che il primo e più severo comandamento de' padri a' figliuoli in Firenze e de' maestri a' discepoli non fosse -- Che eglino nè per bene, nè pet. male, non leggessero cose volgari (21). Ognuno a sa come Pietro Bembo veneziano fu primo a ridurre la lingua a regole; ma più che le regole giovarono d'allora in poi a ripulirla le opere di molti scrittori per tutta Italia. Ma quantunque ei pronunziasse, che l'essere nato Fiorentino a ben volere Fiorentino scrivere non fosse di molto vantaggio, (22) nè alcuno s'opponesse per anche a viso aperto alle sue parole, tenute tuttavia per oracoli, tutti a ogni modo se ne giovavano come d'oracoli, e le contorcevano a favorire le loro opinioni. Però i Fiorentini contesero che, stando letteralmente alla sentenza del Bembo, s'aveva da scrivere Fiorentino; dal che veniva la direttissima conseguenza che l'Italia avevan dialetti inolti parlati, ed uno solo atto ad essere scritto, e non possedeva in comune lingua veruna. Insorse d'allora in poi, crebbe ed inferocl la tristissima lite -- se la lingua letteraria s'avesse da chiamare Italiana, Toscana, o Fiorentina. Così allora le aniinosità provinciali, che sino dalle età barbare avevano conteso a quel popolo sciagurato di riunirsi in nazione, erano esacèrbate insieme e santificate da quegli uomini letterati i quali negavano all'Italia fin'anche il diritto di possedere una lingua comune a tutte le sue città. Dante innanzi la fine della barbarie sentì ohe a compofte un reame di tante provincie, le quali paflando i loro dialetti nòn s'intendevano fra di loro e bisognava avvezzare tutti gli Italiani a comunicarsi a vicenda le leggi, la storia patria, i pensieri e gli affetti con una lingua scritta, più universale di qualunque dialetto popolare, e meno soggetta alle alterazioni ohe mutano quasi giornalmente i suoni e significati degl'idiomi parlati. Inoltre per propria esperienza egli vide e presentì che sì fatta lingua non poteva mai conseguirsi, se non se aonfondendo e fondendo, quasi metalli purificati e inmedesimati dal fuoco, tutte le parole e le locuzioni che l'ingegno degli scrittori avrebbe potuto scegliere da ciascheduno di tanti dialetti come più atte a comporre la lingua letteraria e generale della nazione. Ma nell'età di Leone X, sì celebrata per tanta abbondanza di letteratura, la lite sul nome della lingua incominciò el stolta e accanita, che Niccolò Machiavelli, il più veggente fra gli scrittori politici, egli che più non aspettava salute se non dalla riunione degli Italiani sotto un principe solo anche a petti che fosse tiranno, assalì e la sentenza e la fama di Dante, e lasciò un terribile documento delle risse puetili alle quali la vanità inunicipale conduce anche gli uomini grandi. Il Machiavelli chiamava meno inonesti quelli che volevano che la lingua fosse Toscana; e inonestissimi gli altri i quali chiamavanla Italiana; è amoroso della patria e giustissimo chiunque sosteneva doversi chiamare al tutto Fiorentina. (23). Frattanto il Bembo senz'inframmettersi nella contesa ch'egli inavvedutamente aveva attizzata, favoriva i Fiorentini; anzi escluse le opere tutte di Dante dal privilegio di somministrare esempi a' grammatici. Credo ch'egli educato e promosso alle ecclesiastiche dignità, pigliasse pretesto dalla lingua, ch'ei chiamava rozza, di Dante, affine di condannarlo dell'avere virilmente negata a' Papi ogni potestà temporale. L'imitare l'effemminata poesia e l'amore Platonico del Petrarca era velo alle passioni sensuali le quali purchè fossero adonestate, non parevano illecite. Il Bembo, seguace in tutto del Petrarca, aveva figliuoli illegittimi, ed era preconizzato successore di Paolo III (24). Più d'uno, qui dov'io scrivo, accusa quegli uomini d'ateismo; e s'ingannano. La loro religione s'immedesimava co' loro costumi; il che avviene alle religioni di tutta la terra. Il sentire religione è una delle passioni ingenite all'umana natura, e rarissimi vivono privilegiati dal prepotente bisogno di soddisfarla; ma simile alle altre passioni, si nutre di tutte le altre del nostro cuore, e le nutre; e anch'essa viene soddisfatta in modi diversi, a norma de' costumi diversi, delle —leggi e delle opinioni. L'assegnare norme alla lingua Italiana dal volume licenzioso del Decamerone, e lo scrivere latinamente di cose cristiane conforme e frasi al tutto pagane, parevano peccati veniali. Erasmo a imputavali a sacrilegio; e derideva a un'ora l'ignoranza fratesca e la Latinità nor cristiana in Italia, a fine di spianare per tutti i modi la via a' nuovi dogmi. Rimase d'allora in qua nelle Università protestanti la tradizione della miscredenza de' prelati di Leone X. Pur, se non tutti, moltissimi sentivano la fede che professavano, ed erano talor combattuti da superstizioni odntrarie. Alcuni votavansi di non leggere mai libri profani; ma non potendo lungamente reggere al voto, ne impetravano l'assoluzione dal Papa (25). Altri per non contaminare le cose cristiane con l'impura Latinità de' frati e de' monaci (26), avrebbero voluto poter tradurre la Bibbia col frasario del secolo d'Augusto. Però non adoperavano sillaba mai che non fosse giustificata dagli esempi di Terenzio, di Cicerone, di Cesare, di Virgilio, e d'Orazio (27). Così la dottrina di ristringere tutta una lingua morta nelle opere di pochi scrittori fu più assurdamente applicata alla lingua viva degli Italiani; e i loro critici quasi tutti convennero non doversi attingere alcun sempio da veruna poesia fuorchè dal canzoniere amoroso del Petrarca per Laura; nè alcun esempio di prosa da scrittore o scritto veruno, fuorchè dalle novelle del Decamerone (28). Con quanto frutto della religione, non so; ma la letteratura purtroppo discese effeminatissima a molte generazioni.

Nondimeno anche quell'unico libro di prosa Italiana, sul quale erano fondate le leggi tutte quante della lingua, leggevasi scorrettissimo nelle stampe dove gli errori delle prime edizioni s'erano ripetuti e accresciuti; e ne' codici peggio. Anzi alcuni copiatori del secolo XV avendo mutato nel testo le voci rare o antiche, e innestatevi chiose ed arguzie, facevano travedere interpolazioni per eleganze (29). Non molto innanzi che il Bembo pubblicasse intera l'opera sua, la stamperia degli Aldi procacciò un'edizione del Decamerone la quale potesse fare le veci di testo. Se non che l'accademia istituita in Venezia a ristorare gli antichi scrittori, s'era dispersa; il vecchio Aldo era morto già da sett'anni; Paolo. Manuzio il quale poscia ereditò il sapere e la fama del padre, e fortuna tanto quanto men infelice, non era ancora uscito di fanciullezza; e il Bembo, non che niai attendesse, come altri oggi narra, a quell'edizione, le sue lettere manifestano ch'egli applicava alle regole grammaticali una lezione particolare del Decamerone desunta molti anni innanzi da un codice che non sappiamo né donde venisse nè dove andasse a finire. -- Il Boccaccio stampate in Firenze del 1527 io non ho, chè ne corressi uno, di quelli stampati in Vinegia assai prima, con un testo antichissimo e perfetto. Nè poi mi ho curato d'altro. (30) -- Notisi di passaggio come il Bembo tenuto scrittore di purgatissima lingua, anzi notato per eccesso d'eleganza segnatamente nelle sue lettere, (31) scrive col dialetto veneziano mi ho curato, in vece di mi sono curato, che è proprio de' Fiorentini. Ma niuno può mai, per lungo studio ch'ei faccia, divezzarsi affatto dal suo dialetto materno; e comechè molti il constrastino, non però è meno vero che i dialetti diversi hanno perpetuamente cospirato a comporre una lingua letteraria e nazionale in Italia, non mai parlata da veruno, intesa sempre da tutti, e scritta più o meno bene essendo l'ingegno, e l'arte, e il cuore più ch'altro, degli scrittori. Del resto, l'edizione Aldina essendo uscita non assai prima, bensì non più che cinque anni innanzi la Fiorentina del 1527, è da dire che il Bembo alludesse a taluna delle molte ristampe anteriori pubblicate in Venezia. Oltre a ciò non si può intendere dal contesto, ch'egli emendasse le prove di tutta un'edizione, ma ch' ei solamente sopra un esemplare stampato notasse tutte le migliori lezioni somministrate da quel suo codite. Nè pure la perfezione del codice va giurata su la sua sentenza; perchè quantunque egli allora ottenesse, e anche oggi da molti, l'autorità d'infallibile critico, ei non pertanto fra le opere scritte in Italiano innanzi a Dante, cita l'Agricoltura di Pietro Crescenzio, e la Storia di Troja del Giudice di Messina, (32) le quali a dir vero erano originahnente Latine, e furono tradotte dopo cent'anni e più. Talvolta egli nega che il Boccaccio abbia tradotto una delle Decadi di Livio:e talvolta credelo, e insiste che sia stampata. (33) Ad ogni modo la poca cura del Bembo a conoscere quanto i Fiorentini avessero emendato il libro sul quale doveva governarsi tutta la lingua, prova ch'ei credeva di leggerlo immacolato; e che a tramandarne a' posteri la vera lezione bisognava d'allora innanzi non tanto l'acume e il sapere de' critici, quanto gli occhi e la pazienza de' correttori di stampe --

Così sognava, e tuttavia d'intorno
Quella divina illusion gli errava,
Misero! nè sapea come il Tonante
Maturava i destini, e quanto pianto
E quanto sangue di perpetua guerre
Dovean pagare al Ciel Teucri ed Achei. (34)

A' Fiorentini pareva che il Decamerone fosse straziato, e i loro privilegi manomessi oggimai troppo da' forestieri (35). Un Ambasciadore Veneziano interrogando il Machiavelli intorno a' meriti del Bembo, s'udì rispondere: Dico quello direste voi se un Fiorentino insegnasse la lingua vostra a Veneziani. (36) E se questa fosse più novella che storia, lascia soorgere ad ogni modo gli umori di quegli uomini, e di que' tempi. L'edizione del 1527 fu opera di molta spesa, e di pazientissimi studi di parecchi gentiluomini Fiorentini che si speravano di ristorare la loro città della perdita degli autografi. Trovo che vi concorsero Pietro Vettori, Franaesco Berni, e Bernardo Segni. Il Vettori è tuttavia nominato fra' principi dell'arte critica perch'ei fu de' primi, de' più indefessi, e più felici ristoratori d'autori Greci e Latini, molti de' quali erano ancora inediti; non però fece studio della lingua Italiana: ma forse l'autorità del suo nome fu più tardi citata dagli esageratori de' meriti di quell'edizione. Più efficace fu l'aiuto del Berni; perchè a molte varianti credute spurie supplì raffrontando un codice allora tenuto per ottimo. Ma i codici non bastarono; e quantunque quegli editori il dissimulassero, il famoso fra' lor lodatori confessa ch'ei furono spesso necessitati a correggere ad arbitrio di congetture. (37) Che se al Berni non venne sempre fatto d'indovinare le parole originalmente scritte dal Boccaccio, e le rifece di fantasia, ei di certo non ne sostituì di peggiori. Ei sapeva per istinto distinguere a un tratto le eleganze dall'affettazione, e i vezzi schietti dagli idiotismi plebei. Nè perchè ei ponesse tanta cura a quelle novelle, si innamorò delle vecchie lascivie, come ei chiamavale, del parlare Toscano. Il suo rifacimento del poema del Boiardo rifece la lingua; la rinfrescò di amabilità giovenile come l'Ariosto abbellivala di originali eleganze. Ma l'uno e l'altro erano allora più cari a' lettori che stimati da' critici. Le grazie dello stile del Decamerone, benchè vaghissime, sono ammanierate e ornate dall'arte; risaltano agli occhi e forzano ad osservarle: e però i professori di rettorica possono gloriarsi di discernerle di leggieri e farsi merito di declamare una dissertazione sopra ogni vocabolo. Nell'Orlando Innamorato a e nel Furioso le grazie benchè più molte d'assai,'scorrono spontanee e meno apparenti; ma quanto più si fanno sentire nè si lasciano scorgere, tanto più sono grazie. Il Segni era promotore di quell'edizione. Fu nominato con lode a' suoi tempi. fra' traduttori e chiosatori d'Aristotile; e all'età nostra, fra gli ultimi storici di Firenze. Visse repubblicano di parte, e narrava la storia della servitù; e forse per non porre a pericolo i suoi figliuoli, ei morendo non disse dove avesse riposto il suo manoscritto. Fu poi ritrovato a caso guasto dal tempo, e donato a uno de' principi Medici a' quali giovava di risotterrarlo, e non fu veduto dal mondo che dopo quasi due secoli, e con fresche lacune; non così per amore degli antichi signori di Firenze, de' quali la razza allora spegnevasi, come per riverenza alla memoria de' Papi. (38) Tuttavia mutilata come è, e benchè letta da pochi la Storia del Segni, dopo quella del Machiavelli e del Guicciardini, merita il primo luogo. E' più esatta dell'una, e più veritiera dell'altra; e s'ei nello stile cede d'energia e di profondità al Machiavelli, avanza in naturalezza e sobrietà il Guicciardini. Ma e le storie e i poemi di quell'età ch'oggi s'hanno per depositarj di lingua, erano allora tenuti presso che barbari e indegni di essere nominati con "le Cento immortalate Novelle".

L'edizione del 1527 a fu tenuta cara sin da principio da' Fiorentini come ricordo degli ultimi martiri della repubblica, perchè quasi tutti que' giovani i quali v'attesero combattevano contro alla casa de' Medici, e morirono nell'assedio di Firenze, o in esilio. Poscia il libro divenne più raro perchè stava a rischio d'essere mutilato o inibito. Il Bembo mentr'era segretario di Leone X, si travagliava molto mal volentieri cose de' frati, per trovarvi sotto molte volte tutte le umane scelleratezze coperte di diabolica ipocrisia (39) -- e il Pontefice faceva commedia dell'Abate di Gaeta, coronandolo d'alloro e di cavoli sopra un elefante. (40) Adriano VI, che gli succedeva, era stato claustrale, e. i Cardinali della sua scuola proposero poco dopo che i Colloqui d'Erasmo, e ogni libro popolare ingiurioso al clero, si proibissero. A Paolo III parve che la minaccia bastasse, nè s'adempì per allora; ma chi sapeva che il Decamerone, già tradotto in più lingue, allegavasi dagli antipapisti, (41) s'affrettò a provvedersi dell'edizione Fiorentina la quale, anche da' dotti che non ne facevano gran caso per l'emendazione critica, era creduta schietta d'inavvertenze di stampa. (42) Ma nè pur questo era vero. Il libraio Veneziano che dopo due secoli a contraffare quell'edizione foggiò la carta e i caratteri, la purgò meccanicamente e contro intenzione di moltissimi errori. Così gli esemplari fiorentini del 1527, incominciando da prima ad essere custoditi non senza giuste ragioni, divennero tesori di librerie; e uno solo or di quella, or di tal'altra rara edizione arricchl i venditori. Uno del Valdarfer fu comperato non sono molti anni, per lire due mille duecento sessanta sterline (43) -- ed è somma che s'io non isbaglio oggi darebbe da forse dodici mille scudi Toscani; e all'età del Boccaccio gli sarebbero bastati a fondare una pubblica biblioteca in Firenze. -- Or affinchè i dilettanti di sì fatte curiosità non iscambino l'originale del 1527, per la ristampa, raffrontino poche pagine e s'appiglino alla più scorretta, perchè di certo è la vera. Sul principio del volume si legge cento novella, e nella contraffazione novelle; e così spesso sino alla penultima carta, dove Carlo Mgno dell'edizione originale fu raggiustato Magno. Ma per l'antica, e a quanto io preveggo, futura sciagura della lingua italiana d'essere disfigurata dal troppo amore di que' tanti che vogliono arricchirla d'abbellimenti d'ogni maniera, anche quel cento novella e molti sgrammaticamenti de' così fatti sono stati tenuti per atticismi. Gli Accademici della Crusca s'avvidero di molte voci registrate da prima nel loro vocabolario le quali non avevano altro fondamento, che qualche errore di stampa, o qualche passo sconciamente letto, o interpretato, o altro simite scambiamento. (44) Vivono ad ogni modo e vivranno, e in Lombardia più ch'altrove, parecchi grammatici a' quali, levando le molte voci e dizioni generate dall'ignoranza e dall'accidente ne' libri antichi, parrebbe d'impoverire l'idioma di molte sue grazie, (45) senz'avvedersi che quando pur fossero grazie nasceano bastarde e sono oggimai fatte decrepite.

Dall'emendazione del Decamerone originò verso quel tempo in Firenze un'adunanza privata la quale da prima fu detta degli Umidi, i quali sotto colore di letteratura congiuravano contro a' Medici; poi fatta pubblica e meno libera, si chiamò Accademia Fiorentina; finalmente raccoltasi sotto il patrocinio di Cosimo Gran Duca, assunse il nome d'Accademia della Crusca e la dittatura grammaticale in Italia. Incominciò, a meditare una nuova emendazione delle Novelle; tanto più che un medico del Gran Duca dissotterrò non so donde e gli donò la copia sino a que' giorni ignotissima del Mannelli scritta con miracolosa accuratezza al parere degli Accademici; (46) dal quale ho detto poc'anzi che niuno dissente. Bensì quando asserivano ch'egli in più d'un luogo fa fede d'avere scritto il suo codice su l'originale istesso dell'autore, (47) meritavano la taccia non foss'altro d'inavvertenza e niuno sospettò mai se dicessero il vero. La data del codice e le postille del Mannelli palesano ch'ei ricopiava dall'unico testo tenuto originale dopo la morte del Boccaccio, e nol giudicava schietto d'errori; ma non lasciano nè pure pretesto a congetturare ch'ei vedesse gli autografi. E benchè non si possa avverare come nè quando perissero, la certezza storica della loro esistenza si smarrisce dieci anni e più innanzi la morte del Boccaccio; e le induzioni derivate dalla storia tendono a provare che fossero distrutti da esso. La copia del Mannelli riesce utilissima ad ogni modo alla lingua e alla critica; perchè egli era amico famigliarissimo del Boccaccio; e sapendo come e dove correggere, contentavasi di trascrivere; e tacendo dell'origine del suo testo, mostra a ogni modo che doveva pur essere il migliore, se non l'unico, al quale ei potesse attenersi. Emerge da ogni pagina di quell'esemplare un'interna e innegabile testimonianza d'autenticità; e se si fosse smarrito, è probabile che la lezione delle Novelle, continuando ad essere emendata per via di congetture dagli uomini dotti, si sarebbe allontanata sempre più dalla mente del primo scrittore. E non di meno fin anche quell'ottimo codice capitò sotto gli occhi degli Accademici adulterato da critici sconosciuti. Alle postille del Mannelli ne' margini, ricordate poc'anzi, furono aggiunte parecchie d'altro carattere e inchiostro, e molte alterazioni arbitrarie nel testo le quali confondono la prima scrittura. Sono imputate, ma senza addurre ragioni; a Jacopo Corbinelli, che fu primo a raffrontare quel codice, e dietro al Decamerome trovò il Corbaccio, e lo illustrò secondo la lezione del Mannelli in Parigi. (48) Forse le giunte delle postille e le interpolazioni sono di data più antica. Comunque si fosse, all'Accademia non riuscì per avventura difficile di discernere le dubbie lezioni e scansarle.

La somma difficoltà consisteva a trovare norme all'ortografia, che ad essi in quell'esemplare pareva, ed era, dura, manchevole, soverchia, confusa, varia, incostante e finalmente senza molta ragione. Il che essendo comun difetto di quell'età, stimarono che poco differente fosse quella dell'Autore. (49) Però nel Decamerone, e in tutte le opere d'antichi scrittori, e nel loro Vocabolario gli Accademici della Crusca recarono le molte regole in una -- ed è: Che la scrittura segna la pronunzia, e che da essa non s'allontani un minimo che. (50) -- Come sì fatta legge guastasse di necessità l'evidenza e la prosodia, e contaminasse di plebeismi l'indole signorile della lingua letteraria degli Italiani, e di quanti e quali mostri poetici abbiano gli Accademici popolato il poema di Dante ho già detto più di proposito in un Discorso su le fortune del testo della Divina Commedia; e gli uomini non impazienti a queste necessarie minuzie giudioheranno. Ed ora, quantunque a me sembri vergogna e sia noja il ridire le stesse cose in due luoghi, mi gioverò d'alcune sentenze di quel libretto a mostrare che gli Accademici non potevano far servire la pronunzia ignotissima del tempo del Boccaccio se non a quell'unica ch'essi usavano e udirono a' loro giorni. E come mai potevano immaginare che i Fiorentini del secolo XVI proferissero parole ed accenti e dittonghi come i loro antenati nel secolo XIV? La scrittura delle parole s'altera di secolo in secolo, anzi di generazione in generazione; onde molti, senza troppo pericolo d'ingannarsi, distinguono l'età de' codici dalle fonne diversissime de' caratteri. E nondimeno chi scrive, e molto più chi ricopia è guidato dall'occhio che è men capriccioso assai dell'orecchio, dal quale ogni idioma d'anno in anno è modificato ne' suoni della voce assai più che ne' segni della scrittura. Le differenze delle figure dell'alfabeto scritto stando permanenti nelle carte, riescono, visibili a' posteri; ma le modulazioni e articolazioni mi delle sillabe e delle parole si vanno rimutando impercettibilmente in guisa che chi le pronunzia le cangia e non se n'accorge. A' grammatici Fiorentini, per appurare l'antica pronunzia, bisognava udire parlare l'ombre de' morti. Ma se gli arcavoli rivivessero a conversare co' loro discendenti in qualunque città della terra, penerebbero a intendersi fra di loro; tanto le pronunzie si mutano: e a dir vero, il più o il meno della varietà fra tutte le lingue non dipende se non se dalle maggiori o minori diversità delle pronunzie fra gli uomini. Che se la lingua letteraria de' popoli s'avesse sempre da scrivere secondo la pronunzia della lingua parlata, l'ortografia andrebbe trasformata ogni secolo, e nessuna lingua avrebbe fermi principj nè sicure apparenze. Vero è, che il Mannelli e tutti i co-Boccaccio, e gli autografi del Petrarca posero l'Accademia della Crusca a durissime strette. Perchè volendo essa prescrivere i libri antichi e il nuovo dialetto Fiorentino a tutta l'Italia come unici esempi e regolatori della lingua letteraria, era necessitata -- o di alterare la ortografia antica de' libri a farla calzare alla moderna pronunzia del popolo e fondar sovra questa ogni legge -- o di lasciare puntualmente agli antichi quella loro incertissima ortografia: e qual fondamento restava più a posare le leggi? Gli Accademici s'appigliarono al primo partito; e ricavando l'ortografia dalla pronunzia popolare de' loro giorni, l'applicarono al Boccaccio e agli autori antichi, ne' quali si rimase. Bensì ne' libri scritti dopo il secolo XVI fu rinnovata fin anche da' Fiorentini secondo gli usi diversi che andavano correndo, e non fu mai generale nè certa. Il che forse non sarebbe avvenuto, se gli Accademici anzichè desumerla da un dialetto e da un'età sola, l'avessero investigata nella sto ria di tutte le lingue, e nelle origini e nell'indole dell'Italiana.

Ma intanto che beatissimi del ricoverato Mannelli studiavano per la loro edizione, non s'avvedevano che Lutero e Melantone e Calvino ne gli impedivano. Lutero che da giovane era stato iniziato forse in tutti i misteri de' claustrali, li rivelava con virulenza tanto più formidabile quant'era pia giustificata da' fatti. I principj teologici di Melantone dettati con metodo più insinuante, erano tradotti e disseminati nelle città della Lombardia. (51) Calvino era stato a dimora, sott'altro nome, nella corte di Ferrara; convertì la Duchessa e alcuni altri alle nuove opinioni; e il suo Catechismo correva in Italiano fra le mani di molti. (52) Ma perchè la nuova teologia riusciva inintelligibile al pari e forse più dell'antica, i suoi promotori la dichiaravano per via di esempi suggeriti dalla vita ecclesiastica. Ma de' preti in dignità niuno poteva far motto senza pericolo: onde ogni frate fu l'irco delle iniquità d'Israele. I figliuoli bastardi de' Papi d'allora e i loro nipoti imparentati a' monarchi d'Europa avevano principati in Italia; i loro sicari li vendicavano anche negli altri stati; e chiunque avesse disputato della divinità delle bolle pontificie che li assolvevano d'ogni delitto, sarebbe stato reo di sacrilegio. (53) Bensì de' miseri frati non fu mai fino a que' tempi pericoloso di dire il vero ed il falso. Le loro tristizie essendo più note al popolo, e spesso ridicole, prestavano argomenti efficaci agli innovatori i quali accusandoli di tutte le iniquità additavano i loro complici più potenti, senza bisogno di nominarli. Ho accennato com'erano disprezzati nel regno di Leone X: poscia i nipoti di Clemente VII mascherati da monache venivano introdotti da frati a pernottare ne' monasteri di donne. (54) In quasi tutte le commedie, che erano per lo più imitazioni delle Latine, il personaggio del Lenone fu assegnato ad un frate: e però a fronte degli altri il Boccaccio "come la pecora; morde; e non come il cane." (55) Ad ogni modo i claustrali erano i servi più vili insieme, e più necessari della Chiesa Romana; e i motteggi contr'essi cominciavano a trapassare da' teatri e da' romanzi alle chiese. I predicatori erano derisi sul pulpito; le donne, a confonderli d'ignoranza, citavano gli Evangeli, e i Profeti; i frati intimairano di non voler più predicare, e accusavano d'eresia le città; (56) la chiesa decretò l'anatema contr'ogni libro dove gli ecclesiastici d'ogni abito e regola fossero proverbiati; e gliAccademici Fiorentini, non che ristampare il Decamerone, appena potevano leggerlo senza l'indulto del confessore.

Il diritto canonico dell'anatema è originale della religione; (57) e dal dì che San Paolo redarguì San Pietro ed altri Apostoli perchè non facevano come ei predicava, (58) diventò imprescrittibile a tutte le comunioni Cristiane; e tutte per avventura s'avrebbero da chiamare Paoliane. Qui mentre scrivo, intendo come la Congregazione de' Metodisti, non potendo altro, compera libri nelle vendite all'incanto e li abbrucia. (59) Ad ogni modo sino a mezzo il secolo XVI le scomuniche e le pene capitali a' libri e a' loro scrittori non s'ap plicavano che per colpe vere, apposte, o probabili di eresia; e le sentenze erano più o meno severe, secondo gli uomini e i tempi. L'opera del Pomponazzi sull'immortalità dell'anima, benchè efficacissima ad illustrare la filosofia d'Epicuro, ed arsa per pubblico decreto da' Veneziani, fu dal Padre Inquisitore nel pontificato di Leone X assolta d'ogni censura: (60) e certe chiose del Sadoleto a un'Epistola di san Paolo, tuttochè censurate dall'Inquisitore, erano ribenedette da Paolo III. (61) Questi esempi, innumerabili e giornalieri, cessarono da che la riforma de' Protestanti provocò la riforma Cattolica che rimase meno apparente, benchè forse maggiore e certamente più stabile. I Protestanti la derivarono dalla libertà di interpretare gli oracoli dello Spirito Santo con l'aiuto dell'umana ragione; e i Cattolici non ammettevano interpretazioni se non le ispirate alla Chiesa da Dio, rappresentato dai Papi. Quale delle due dottrine provvedesse meglio alla religione, non so: forse ogni religione troppo scandagliata dalla umana ragione, cessa d'esser fede; e ogni fede inculcata senza il consentimento della ragione, degenera in cieca superstizione. Ma quanto alla letteratura, la libertà di cascienza preparava in molti paesi la libertà civile, e di pensare, e di scrivere; mentre in Italia l'obbedienza passiva alla religione accrebbe la politica tirannia, e l'avvilimento e la lunga servitù degl'ingegni. La riforma de' Protestanti mirava prinicipalmente a' dogmi; e la Cattolica unicamente alla disciplina: e però anche le opinioni intorno alla vita e a' costumi degli ecclesiastici furono represse come tendenti a nuove eresie. Il Concilio di Trento vide che i popoli incominciando in Germania a dolersi che i frati fossero bottegai d'indulgenze, si ridussero a rinnegare il sacramento della confessione, il celibato degli ecclesiastici, e il Papa. Adunque fu provveduto, che per qualunque allusione in vituperio del Clero, i libri si registrassero nell'Indice de' proibiti; e che il leggerli o il serbarli senza dispensa di Vescovi fosse peccato insieme e delitto da punirsi in virtù dell'anatema. Le leggi canoniche furono d'indi in poi interpretate e applicate da' tribunali civili presieduti da' Padri Inquisitori della regola. di San Domenico; i quali inoltre per consentimento de' governi Italiani, furono investiti dell'autorità di esaminare, alterare, mutilare, e sopprimere ogni libro antico o nuovo innanzi la stampa. Pio V stato Domenicano, poi fatto santo, regnò subito dopo il Concilio di Trento, e fece esempio di Niccolò Franco a tutti gli scrittori maldicenti de'chierici. E perchè non era reo d'eresia ma di scandalo, non fu condannato con le forme e le pene del Santo Ufficio, e mori senza lunghi tormenti per la corda del manigoldo. Come foss'ei giudicato, e per qual delitto specifico, e se per sentenza di tribunale, o per moto-proprio del Papa, non ho mai saputo appurarlo. Era scrittore osceno: pur nondimeno il Firenzuola monaco e Abate Vallombrosano, e il Bandello Vescovo e frate Domenicano, e il Lasca, ed altri coetanei del Franco scrivevano laide novelle; ma nocevano piuttosto al pudore femminile che al buon nome degli ecclesiastici. La Delfina di Francia, che regnò a congiurare col santo Pontefice la carnificina degli Ugonotti, accoglieva la dedica delle Novelle, innanzi che fossero espurgate secondo i canoni; (62). e le mutilazioni poi fattevi manifestano che quel misero espiava non tanto le oscenità de' suoi scritti quanto le satire di certi epigrammi ingiuriosi anche al Papa. (63)

Pio V. per intercessione di Cosimo I, concesse agli Accademici Fiorentini di ristampare il Decamerone emendato sul testo del Mannelli, purchè "per niun modo si parlasse per entro alle Novelle in male o scandalo de' PRETI, FRATI, ABBATI, ABBADESSE, MONACI, MONACHE, PIOVANI, PROPOSTI, VESCOVI, o altre COSE SACRE; ma si mutassero i nomi, o si facesse in altro modo." (64) Quante parole, e sentenze, e novelle tutte intere dovessero essere cancellate e rimutate nel libro, apparl poi da' carteggi degli Accademici, del Gran Duca, dell'Ambasciadore Toscano al Pontefice, e degli Inquisitori di Firenze e di Roma. Serbavansi, e per avventura sono tuttavia da vedersi, nella libreria Laurenziana; (65) se ridicoli come pur sono, s'hanno da custodire per documenti e pronostici della servitù e delle inezie in che la letteratura e l'Italia erano cadute allora, e ricadono. Le emendazioni critiche e le canoniche cozzavano fra di loro; ogni soluzione mandata a Roma provocava nuovi scrupoli, e Pio V in quel mezzo morì. Gli Accademici ed il Gran Duca, quasi che il mondo vedesse imminente il pericolo di perdere ogni sillaba del Decamerone, rinnovarono le supplicazioni a Gregorio XIII perch'ei pronunziasse in che modo s'avesse da mutilare, e potessero alfin pubblicarlo. E nondimeno erano allora decorsi appena cent'anni dopo l'edizione principe del 1470, ed era stata succeduta da più di cinquanta ristampe (66). Parrà dunque a molti che i letterati Fiorentini, non che mai chiedere, non avrebbero dovuto patire di farsi esecutori della tortura del libro ch'essi pur adoravano. E come mai poteano sperare che un'edizione grammaticalmente correttissima adulterata fratescamente, sarebbe stata preferita alle intere, benché viziate dagli stampatori o da' oritici? Le memorie di sì fatte puerilità d' uomini gravi forse giovano più che le storie a conoscere le nazioni ed i tempi.

L'edizioni del Decamerone presso che tutte uscivano da Venezia; perchè non essendo turbata da commozioni civili, né invasa da' forestieri, e temendo non ogni minima novità potesse smovere gli antichi ordini dello stato, opponevasi a' dogmi de' Protestanti, e non compiaceva alle recenti discipline Cattoliche se non in quanto la religione potea conferire alla costituzione ed agl'interessi della repubblica. Però l'arte della stampa era meno inceppata che altrove; e taluni n'arricchifono in guisa che di libraj divennero poscia patrizi. Eran manifattori de' librai alcuni uomini letterati i quali scrivevano quanto e come potevano; ed oltre alle loro mille fatiche d'ogni maniera, rinnovavano le edizioni degli autori più popolari, e per lo più del Boccaccio. I loro nomi, e più che altri Francesco Sansovino, Ludovico Dolce, e Girolamo Ruscelli, si leggono ne' frontispizj di quasi tutte le ristampe di quell'età. Il Sansovino facendo più spesso le parti di compilatore voluminoso che di grammatico, attribuiva or ad altri ora a sè parecchie novelle del Decamerone ch' ei deformava per palliare il suo furto; nè questo fu il solo o il più grave del quale sia stato convinto (67). Il Dolce nato in Venezia donde non si mosse mai, traduceva quante opere greche e latine gli venivano per le mani; compose rime d'ogni musica e dieci o dodici poemi lunghissimi; e volumi di storie, di orazioni, e di lettere; trattò d'antiquaria, di filosofia, e d'ogni cosa; e scrivendo dl e notte sin oltre all'ottantesimo anno d'una vita faticosissima, morì povero. Ridusse il Decamerone alla vera lezione tre volte; e per allettar compratori alla seconda edizione, censurò la sua prima; e nella terza poi l'una e l'altra: (68) e il Ruscelli vituperandole tutte e tre, propose la sua lezione come l'unica vera; e riusol la più infame. (69) Non perch'egli avesse corretto meglio nè peggio; ma tutti gli altri professando di venerare ogni parola del Boccaccio, le alteravano ad ogni modo, e apponevano i vizi grammaticali agli amanuensi, agli stampatori ed a' critici; e il Ruscelli n' attribuì di molti all'autore, e talvolta ne vide dove non erano. (70) Dolevane dunque agli Accademici di Firenze per amor delle lettere, e si adiravano che un libro nel quale vedevano tutti insieme i tesori d'ogni umana eloquenza, e ch'ei non reputavano Italiano, ma Fiorentino, fosse non pur emendato, ma biasimato in Venezia. (71) Temendo che in quelle tante edizioni, quantunque non mutilate, la critica forestiera guasterebbe la fama dell'autore, e della loro città, e della lingua, patteggiavano co' Frati Inquisitori di potere stamparne una comechè svisata, in Firenze; e confidavano che l'utilità della loro emendazione grammaticale sarebbe compenso equivalente allo strazio che il ferro ed il foco del Santo Ufficio farebbe de' tratti più comici nelle Novelle.

Cosimo I. sperandosi di agevolare il trattato deputò a negoziare col Maestro del Sacro Palazzo in Vaticano alcuni Accademici, uno de' quali era Vescovo, e quasi tutti ecclesiastici in dignità; e fra gli altri Vincenzo Borghini illustratore delle antichità Toscane, e scrittore non pedantesco: ma i nomi degli altri sono men noti alla storia letteraria d'Italia, che a' Fasti Consolari, com'ei li chiamano, delle loro Acca demie. Le nuove alterazioni al Decamerone mandate a Roma erano quasi sempre lodate; ma non bastavano. Il Maestro del Sacro Palazzo scusavasi -- Le mi perdoneranno se alcuna volta gli parerò un po' duretto in levare, accertandole però, che in tutto quello potrò condescendere, serò sempre pronto (72) -- e gli esortava. a rifare alcune novelle di pianta: non vi si provarono, e anteponevano di tralasciarle del tutto. -- Della sesta (Giornata I) poichè è piaciuta alle SS. VV. non farne altra nova, né in suo loco ponerne altra dell'Autore, per le giuste ragioni, che allegano, si potrà star fuori, che ad ogni modo da cento a novantanove non è molta diferenzia, e si potranno peravventura ancora chiamar cento intendendosi la denominazione del maggior numero. Ma nè il Padre Inquisitore poteva costringerli a confessare che novantanove e cento fosse tutt'uno. L'espediente di pigliare una novella ad imprestito dalla Fiammetta o d'altri romanzi del Boccaccio non piacque, gli Accademici avendo già decretato ch'ei non sapesse scrivere bene se non nel Decamerone; e di ciò poscia s'affaticarono a convincere il mondo. (73) Le consulte e le orazioni tenute secondo i diversi pareri nell'Accademia a trovare partiti in tanta difficoltà, stanno ne' documenti ricordati dianzi. Ma ciò che non s'attentarono di dir mai, e che pur doveva esacerbare a morte la loro miseria, era la letteratura del Maestro del Sacro Palazzo frate Domenicano e Spagnuolo, il quale si aggregò di proprio diritto alla loro adunanza. Scrivendo lettere in lingua hastarda dichiaravasi anche in virtù della sua autorità di grammatico soddisfatto degli accomodamenti che non potria dir più, e se ci hanno e sudato, e pensato su molto, come facilmente ognuno potrà cognoscere, l'hanno ancora sì fattamente accomodato, che niuno potrà se non lodare ogni cosa intorno a ciò mutata ed acconcia -- non però venivano a conclusione. Se non che un Dominicano Italiano e di natura più facile (chiamavasi Eustachio Locatelli e morì Vescovo in Reggio) vi s'interpose; e per essere stato confessore di Pio V, impetrò facilmente da Gregorio XIII che il Decamerone non fosse mutato se non in quanto bisognava al buon nome degli ecclesiastici. Così nel 1573, con le Badesse e le Monache innamorate de' loro ortolani, mutate in Matrone e Damigelle; e i Frati impostori di miracoli, in Negromanti; e i Preti adulteri delle Comari, in Soldati, e mille altre trasformazioni, ed interpolazioni inevitabili, riuscì agli Accademici dopo quattr'anni di pratiche di pubblicare in Firenzè il Decamerone illustrato da' loro studi. D'allora in poi.prescrissero le loro edizioni come unici testi di lingua a tutta l'Italia.

A chi guarda alla infinita letteratura diffusa nel secolo XVI in Italia, quanti ingegni fiorivano illustri in ogni università; come pensando e scrivendo di filosofia metafisica su le opere d'Aristotile e di Platone faceano scoppiar. mille nuove e arditissime idee dalle antiche; come la storia de' fatti moltiplicavasi per le scoperte recenti dell'America e della stampa, e la libertà deHa mente s'esercitava per le controversie ne' nuovi soismi di religione; quanto le guerre perpetue di Carlo V e le mutazioni improvvise ne' governi d'Europa e nelle pubbliche e private fortune, eccitavano le passioni degli Italiani, e raffinavano le arti e gli studi della politica: l'Italia era il campo delle battaglie, e Roma era confederata o nemica potente, o mediatrice interessata, e per lo più instigatrice de' principi; e i loro consigli erano direttamente o indirettamente agitati da uomini di chiesa e pochi senza molto sapere si meritavano le ecclesiastiche dignità: i professori di letteratura sentivano ed illustravano gli autori Greci e Romani, e rari uscivano allievi dane scuole che non intendessero il Greco, e tutti scrivevano il Latino, e insegnavanlo fino alle giovinette: per la diffusione della letteratura prosperò la gloria delle arti belle; e l'Italia pareva emporio di dottrina, e di eleganze, e di lusso per tutta l'Europa: ——-- e a chi guarda ad un tempo l'Italia tutta quanta in quel secolo affaccendarsi in sottigliezze grammaticali; e gli uomini celebrati contendere e sempre più senza intendersi e senza termine per questioni peggio che inutili; e consentire pur nondimeno a riconoscere come unico codice a sciogliere tante liti e quasi ispirato legislatore di stile un libro di novelle, dal quale pur tutte quante le liti sorgevano; e ogni uomo interpretando quel codice variamente, rigermogliavano a mille per una, e s'intricavano sì enigmatiche, che tutti insegnando grammatica, niuno sapeva come s'avesse da scrivere -- ——certo, sì fatto stato simultaneo, di vigore nelle passioni negli ingegni e nelle lettere, e di miseria nella lingua d'una nazione,

Sembra quel ver che ha faccia di menzogna.

Onde gioverà additarne alcune cagioni, da che l'esplorarle tutte o l'esporne debitamente una sola richiederebbe assai documenti e narrazione di fatti più lunga che non importa al proposito di questo discorso.

L'Italiana è lingua letteraria: fu scritta sempre, e non mai parlata; il che vuolsi ripetere perchè o non fu detto, o ch'io mi sappia, non fu mai dimostrato: quindi originarono, e infeHonirono le questioni e non cessano. Quanti dialetti si sono mai parlati in. Italia, se furono scritti alle volte in alcuna provincia, non sono stati mai bene intesi nelle altre; e la poesia comica non prosperò ne' teatri perchè ove non sia in idioma popolare, non ha mai vita nè garbo. Le antiche commedie Toscane, e le Veneziane del Goldoni sono le migliori; ma nel regno di Napoli, e a Roma, ed in Lombardia, riescirebbero freddissime al popolo. Ed affinchè potesse intendersi dalla nazione tutta intera, non si sarebbe potuto scrivere dialetto veruno se non raffinato, rinvigorito, e diversamente artefatto a ogni modo dallo stile proprio ad ogni scrittore. Fra' dialetti Italiani il meno alterato nella scrittura è sempre stato quel di Firenze; sì perchè incominciò a scriversi innanzi gli altri e con arte; e sì perchè per essere meno troncato nelle parole era meno difficile a intendersi dagli altri Italiani. Quella città si reggeva a democrazia; s'arricchiva per le manifatture e pel traffico; era divisa perpetuamente in parti che talvolta s'azzuffavano armate, e più spesso a parole nelle assemblee popolari;. onde tutti per ambizione di magistrature, e per interesse di mercatura s'industriavano a farsi parlatori e scrittori. V'eran pochi, fin anche fra gli artigiani, che non credessero le loro famiglie meritevoli della memoria de' posteri. Scrivevano cronichette della loro repubblica innestandovi le giori. Un d'essi registra: Il mio nonno faceva il badainolo per campare (74) -- Un altro: Io ebbi un avolo, e fu maliscalco e fu tenuto il sommo della città sua: ebbe tre fegliuoli: Cristofano, appresso il padre, tenne il pregio della mascalcia e avanzollo; mio padre avanzò Cristofano dell'arte in sua vita -- onde volendo il padre che appresso sè uno de' figliuoli rimanesse all'arte, convenne a me lasciare lo studio della Gramatica, come piacque a lui, e venir all'arte. Onde dinanzi a me furono di mia gente l'un presso all'altro, ciascuno Maliscalco, sei; ed io fui il settimo. (75) Bensì la ortografia di questo e d'ogni altro documento di quell'età, se non è ridotta all'uso moderno, palesa che il dialetto de' Fiorentini benchè evidente nella sintassi e nella proprietà de' significati, era perplesso ne' suoni e mufabile ne' segni delle idee consegnate alla scrittura. Scrivevano casa, chasa, richordo, figliuolo, fighiuolo, figiolo, maliscalco, manescalco. La grammatica dalla quale, il buon maliscalco fu disviato era la Latina; e gli atti pubblici continuarono ad essere tutti scritti in quel gergo barbaro per due secoli e più. (76) Era pur sempre Latino regolare nella sintassi, perchè serbava più o meno l'antica; e non riesciva difficile a intendersi al popolo, quand'anche i professori nelle Università lo declamavano mezzo Italiano e dicevano: Or, signori, hic colligimus argementum, quod aliquis, quando venit coram magistratu, debet ei revereri; quod est contra Ferrarienses, qui si essent coram Deo, non extraherent sibi capellum vel birretum de capite -- Et dico vobis, quod in anno sequenti intendo docere ordinariè bene et legaliter, sicut enquam feci; extraordinariè, non credo legere, quia scholares non sont boni pagatores. (77) Però quelli fra' Fiorentini i quali erano più educati agli studi, applicando le regole grammaticali Latine al dialetto parlato nelle loro città, incominciavano a stabilire se non a creare la lingua letteraria che prevalse in Italia, tanto più quanto s'approssimava non pure alla sintassi, ma ben anche a'.suoni e alle forme di quel Latino ch'era la sola lingua scritta comune agli Italiani in que' secoli. I dialetti Italiani quanto più sono meridionali tanto più disossano i vocanoli di consonanti, onde diresti che i. Siciliani siano nati piuttosto a modulare che ad articolare la voce; e quanto più sono settentrionali tanto più li spolpano di vocali, e i Piemontesi più ch'altri: e quasi tutti troncano per lo più la fine delle parole. Ma i Fiorentini combinavano con miglior proporzione modulazioni di vocali e articolazioni di consonanti; proferivano e scrivevano le parole intere, e quindi meno dissimili dalle Latine, e più intelligibili a tutti i lettori. E questa pare a me la cagione principale, la quale, per essere stata poi secondata dalla situazione di Firenze nel mezzo d'Italia, dalla moltitudine de' suoi scrittori, dal vigor degli ingegni, e dalla gran fama d'alcuni pochi ottenne che la lingua letteraria della nazione fosse innestata in quel dialetto:

Nec longum tempus, et ingens
Exiit ad coelum ramis felicibus arbos,
Miraturque novas frondes et non sua poma.

Forse a fra que' cent'anni, o pochi più, da che Dante nacque e il Petrarca e il Boccaccio morirono, gli altri scrittori Fiorentini si giovavano con pochissime alterazioni del dialetto parlato dal popolo. Tuttavia la diversità nella giuntura delle parole in oiascheduno di quegli scrittori fa manifesto che alcuni d'essi il nobilitavano, altri l'ingentilivano, e tutti vi poneano più o meno studio; ed è studio inculcato dalla natura a chiunque pur sa di dover soggiacere al giudizio del mondo. E se questo non fosse, com'è che Giovanni Villani, tuttochè alla prima ei si mostri scrittore semplicissimo, ridonda a chi lo rilegge di parole ed eleganze e giunture di frasi tutte sue ed invisibili nelle altre scritture di quell'età? Or quand'è pure evidente che tutti scrivevano in modo diverso dal suo, chi affermerà ch'ei scrivesse per l'appunto come parlava, e che la lingua scritta da lui fosse il dialetto del popolo Fiorentino nè più nè meno? Non che tutti i dialetti, e quei delle città di Toscana più ch' altri, non porgano infiniti modi di dire attissimi a scrivere; ma perchè giornalmente sono applicati a fatti el pensieri alieni spesso da quelli che sogliono scriversi, sanno diplateale e di comico e guastano lo stile desiderato da materie più alte, onde chiunque gli adopera, è costretto a nobilitarli. Poichè dunque il Villani è dotato d'eleganza e ricchezza di lingua ignota allo stile de' suoi coetanei, è da dire ch'egli sapeva come ingentilire gli idiotismi, e discernere quali comportassero di scriversi e quali no; e bench'ei più ch' ogni altro egregio scrittore di quella città siasi giovato del dialetto popolare, ebbe l'ingegno di raflinarlo, e lasciò i primi esempi di lingua letteraria in Italia. Se non che i letterati Fiorentini non pare che abbiano veduto che di dialetto non si può fare mai lingua se non per forza di tante e tali alterazioni che gli facciano perdere le native sembianze di dialetto. E se niun dialetto provinciale può scriversi facilmente per tutta.una nazione, l'impresa riesce in Italia impossibile, dove dodici uomini di diverse provincie che conversassero fra di loro, ciascuno estinandosi a usare il dialetto suo proprio, si partirebbero senza saperti dire di che parlavano. Aggiungi che le persone gentili negli altri presi d'Europa si giovano della lingua nazionale, e laseiano i dialetti alla plebe; ma questo in Italia è privilegio sol di chi viaggiando nelle vicine provincie si giova, tanto che possa farsi intendere, d'un linguaggio comune tal quale che potrebbe chiamarsi mercantile ed itinerario; e chiunque dimorando nella sua città si dipartisse appena dal dialetto del municipio, affronterebbe il doppio rischio di non lasciarsi intendere per niente dal popolo, e di lasciarsi deridere dagli amici suoi per affettazione di letteratura. Nè i dialetti antichi erano meno diversi, o meno spessi in Italia. (78) Pero o il Fiorentino quanto più diveniva lingua Italiana, tanto era più scritto e meno parlato; tanto più era spogliato d'ogni senibianza popolare e municipale; e tanto più il concorso degli écrittori lo arricchl variamente di forme o create di pianta, e trovate per mezzo d'antiche e nuove frasi e parole ringiovinite e combinate con arte. Intendi sanamente, non l'arte vanissima de' retori e de' grammatici; ma sì quel tanto d'arte suggerita ad ogni uomo dall'ingegno suo proprio, che per essere dono di natura spontaneo, ciascheduno l'usa com'ei lo possede; e chi più n'ha, più l'esercita; e trova quasi per ispirazione assai modi a diffondere sembianze nuovissime e geniali pur sempre alla lingua; e così,

Mille habet ornatus, mille decenter habet.

Pur altri mille ornamenti sono meretricj; e mille altri sembrano barbari. Alcuni scrittori per vanità di stile purissimo, non avendo calore da ravvivare le grazie che dissotterrano da. vecchi libri, le lasciano cadaveriche, e pur se ne giovano; altri per necessità d'idee ignote agli antichi, si accatt,ano parole e frasi da' forestieri e non le adoprano in guisa che si confacciano spontaneamente alla lingua. Ma nè i puristi sarebbero accusati di pedanteria, nè gli innovatori di barbarismo, se chiunque scrive potesse insignorirsi dell'arte d'introdurre nel suo stile alcuni vocaboli e modi di dire antichissimi e forestieri sì facilmente che paiano più tosto invitati che intrusi.

Se non che l'arte, necessaria in tutte le lingue, riesce difficilissima agli Italiani; perchè non hanno corte nè città capitale, nè parlamenti dove la lingua possa arricchirsi secondando di grado in grado il corso e mutazioni delle idee, delle fogge, delle opinioni e del tempo; anzi quanto è letteraria, tanto rimanesi artificiale più di quant'altre sieno state mai scritte o si scrivano. Il mantenerla purissima adattandola a nuove idee e all'uso corrente; il porvi studio e far sì che noti raffreddi lo stile; e l'usarla letteraria come è, e ridurla tuttavia famigliare anche a non letterati, sono sempre state difficoltà che in praiica apparvero tutt,e indomabili a molti. Quindi le tante teorie di trattatisti, le controversie, e la confusione di grammatiche di cui fh sempre romorosa l'Italia. E per non esservi lingua prevalente in un secolo, tu vedi fra gli scrittori Italiani d'una medesima età più differenza che in quella d'ogni altro popolo; il che produce il vantaggio della varietà negli stili, e il danno della perplessità ne' giudizi. La lingua non essendo nè generalmente parlata, nè scritta uniformemente, la nazione non ha mai potuto frammettere la sua sentenza; e gli scrittori essendo per lo più i soli lettori in sì fatti argomenti, e certamente i soli giudici, non è meraviglia se ogni uomo, in virtù delle leggi sue proprie danna e scomunica le altrui regole, e provoca nuovi codici. Così tutti scrivendo del come si dovrebbe scrivere, pochi scrivono di ciò che pur si dovrebbe. Inoltre la lngua scostandosi dal parlar giornaliero, s'arrende a quanti vogliono far versi e rime, ed è ritrosissima a chi ragionevolmente vorrebbe scriverla in prosa. Alle centinaia di volumi in prosa ne' quali non è da trovare che vaniloquio e noja (e se non fosse per le memorie de' tempi, chi vorrebbe mai leggerli?) assegnano il nome di classici perciò che le loro parole sono citate nel Vocabolario. Nondimeno per l'essenza sua letteraria, la lingua Italiana fu l'unica fra le lingue recenti la quale abbia preservato quasi tutte le sue parole armoniose, evidenti, e graziose e tutti i suoi modi eleganti, per cinque secoli e più. Le sue leggi sino dalla prima lor epoca incominciando a dipèndere dagli esempi de' libri, le rimasero molte ricchezze che i capricci dell'uso e del parlar giornaliero ha predato ciecamente a più lingue. I Francesi di Luigi XIV, e gl'Inglesi al tempo della regina Anna e anche dopo, esiliarono tanto ( numero di parole che, oltre all'impoverire il loro idioma, gli antichi scrittori divennero difficilissimi a leggersi. Per la stessa ragione la lingua Italiana, comechè incerta nella sua ortografia, la serbò meno trasfigurata, e non domanda che l'uomo scriva in un alfabeto e pronunzi in un altro. Pochissime alterazioni e leggierissime qua e là nelle pagine delle prose di Dante basterebbero a far presumere ch'ei scriveva a' dì nostri; il che apparirà ancor più da due saggi forse anteriori a' suoi tempi, e che fra non molto mi occorrerà di produrre.

Ma nè da questi scrittori antichissimi, nè da Dante, e nè pur dal Villani s'incominciò a togliere molti esempi di lingua, prima del secolo XVII; e s'è già veduto come per quasi tutto il XVI i tesori della lingua si credeano riposti nel Canzoniere per Laura, e nel solo Decamerone. Bensì Dante era tenuto da molti grande poet.e, e citato col Petrarca e il Boccaccio a provare (quest'era ed è tuttavia l'argomento maggiore) che la lingua fu oondotta a perfezione da tre cittadini di Firenze, e perciò s'aveva da nominare, non Italiana, nè Toscana, ma Fiorentina. Poni anche che il dialetto non fosse alterato né -- poco nè punto nelle scritture fra que' cent'anni da che Dante nacque e il Boccaccio morì, non però Dante o il Petrarca o il Boccaccio lo scrissero come era parlato in Firenze. Le alterazioni ch'essi vi fecero, furono grandi, perchè procedevano da grand'arte iàpirata da grande ingegno; e poichè aveano sortito indole diversa, ciascuno si creò.una lingua sua tutta. Che Dante non intendesse di scriverla come parlavano i Fiorentini, ei compose un trattato a provarlo. Il Petrarca non gli udì parlare se non quando avea cinquant'anni in que' pochi giorni ch'ei passò per Firenze. Ben ei l'udì e l'imparò da bambino dalla inadre e dal padre: ma pellegrinando in esilio con essi udiva e imparava tanti altri dialetti sino da quell'età che l'orecchio, e gli organi della pronunzia e la memoria raccolgono per forza di natura tutti i suoni e significati, e inflessioni di voce; e non li perdono più. Nè poi da fanciullo fece suo studio che del Latino; si rimase orfano giovinetto e non udì più idioma di padre o di madre; e per grandissimo spazio della lunga sua vita dimorava in città e corte di Papi Francesi, or nella campagna d'Avignone fra contadini, or in casa de' Colonnesi, i quali, se parlavano alcun dialetto Italiano, doveva essere il' Romanesco. Viaggiò stando a lunga dimora in più luoghi, fuorchè in Firenze. Nè fra' suoi famigliari amanuensi, ed amici domestici fu mai che io mi sappia un unico Fioretitino; e co' letterati di Firenze carteggiò sempre in Latino. Come,egli dalle. reminiscenze del dialetto materno, e da quanti n'udl, e da' rimatori Provenzali, Siciliani e Italiani stillasse, pèr così dire, una quintessenza di lingua poetica, dissi altrove; (79) nè il ridirò qui da che, dovendo attendere fra non molto a un'edizione del Petrarca, mi toccherà di tradurmi da me.

Ben il Boccaccio, difendendosi da chi gl'imputava di attendere a baje, rispose, ch'ei senza ambizione scriveva novellette non solamente in Fiorentin volgare ed in prosa, ma ancora in istilo umilissimo e rimesso quanto il più si possono. (80) Quanto sovra sì fatti vezzi di modestia d'autore possono stabilirsi le teorie grammaticali e gli annali della lingua, altri il vegga. Bensì chiunque contende che da un libro di stile rimesso e umilissimo in volgare Fiorentino la lingua letteraria abbia da pigliare ogni regola, e perdere il nome d'Italiana, s'avviluppa senz'avvedersene in assurde contraddizioni. Trovavano i primati dell'Accademia della Crusca nello stile umilissimo del Decamerone racchiuse in sovrana eccellenza quasi tutti gli stili; e per quell'opera sola possiam dire d'aver pregiate scrittore quasi d'ogni maniera (81) -- e a tanta sovrana eccellenza ed universale il Boccaccio arrivò perchè gli scrittori di quel secolo scrissero appunto come quasi da tutti comunemente nel lor tempo si favellava. (82) Or il dialetto parlato in Firenze può apparir manifesto in tutte le scritture di quell'età, e più che altrove nelle novelle di Franco Sacchetti, il quale davvero ti pare ch'ei non si studj di scrivere, ma che parli; ed è semplicissimo, energico, e rapido, e forse per queste doti il dannavano come scrittore poco meno che barbaro. -- Diede immantinente la volgar lingua nelle novelle del Sacchetti gran segni della sua perdita; perciocchè la costui prosa nel comune corpo delle parole, assai più ritrae al moderno che non fa quella delle Giornate, e allo 'ncontro v'ha maggior numero di certi vocaboli molto vecchi: n guisa che riguardando quella composizione, e quel mescuglio d'antico e di novello, rende una cotal vista squallida, e disprezzata, che per poco diresti, che la nostra favella quasi rimasa vedova, si fosse vestita a bruno. (83) -- Delle parole antiche nel Sacchetti io ne veggo meno che nel Decamerone; e so ch'ei derise argutamente chi le affettava. (84) E se il. Boooaccio scriveva com'ei parlava e come parlavano i Fiorentini, com'è che, nelle novelle è l'arbitro della lingua; e nelle altre sue opere per li tanti vocaboli e per maniere di dire che mancavano di purità, oltre al difetto delle loro giacitare, tra i mezzani autori che scrivessero in quel buon secolo non è, non che altro, accettato? (85) -- è dunque da dire che la lingua delle novelle non fosse parlata dal popolo Fiorentino se non per que' pochi anni ne' quali l'autore attendeva a comporle. Queste e mille altre conclusioni risibili scoppiano dalle dottrine; della scuola de' primi Accademici della Crusca, la quale pur vive e regna in alcuna città d'Italia -- Ma lasciando di dir più oltre di quelle rose, nelle quali il Boccaccio dagli scrittori del suo secolo è stato sopragatto, diciamo che nelle Novelle -- è tutto candidezza, tutto flore, tutto dolcezza, tutto osservanza, tutto orrevolezza tutto splendore -- (86) ed è senza dubbio la più illustre prosa che abbia la lingua nostra: avvegnachè gl'iperbati, e gli altri stravolgimenti della natural tela del. favellare, sieno in quell'opera contra la forma dello scrivere, che s'asava da' buoni in quel tempo. Perciocchè l'autore, cercando le bellezze, e la magnificenza, e la vaghezza, e lo splendore, e gli ornamenti della favella, e in tal guisa di farsi, come si fece, singularissimo dagli altri scrittori del suo secolo, senza alcun fallo, maravigliosamente udbilitò lo stile, ma gli sceinò in qualche parte una certa sua propria leggiadra semplicità. (87)

Adunque quel dialetto Fiorentino e sì fattamente nobilitato non era domestico di Firenze, nè di quel secolo, nè dell'autore, ma del Decamerone; adunque è opera raffinatissima d'arte. L'uso ch'ei fece del suo dialetto a ridurlo a lingua letteraria rende testimonianza dell'arrendevolezza di tutte le lingue, e più della Italiana, ad assumere tutte le trasformazioni nelle quali sono variamente mutate da chiunque può e sa farle obbedire al suo genio. E se il Boccaccio avesse fatto prova men ambiziosa d'ingegno, i rettori non avrebbero poscia usurpato il suo libro a mortificare alla lingua una facoltà nata seco, e di cui trecento anni di inerzia, d'usi forestieri e di servitù l'avrebbero al tutto spogliata, se non fosse facoltà ingenita; ed è: una ardente diritta evidente velocità -- vivissima nelle novelle composte forse un secolo innanzi al Decamerone. Il modo di scriverle fu agevolato dal mestiere di raccontarle, e dal costume d'udirle nelle corti de' signori d'Italia e ne trascriverò due brevissime.

"Messere Azzolino aveva un suo novellatore il quale faceva favolare quando erano le notti grandi di verno. Una notte avvenne, che il Favolatore aveva grande talento di dormire; e Azzolino il pregava che favolasse. Il Favolatore incominciò a dire una favola d'un Villano, ch'aveva suoi cento bisanti; (88) andò a un mercato a comperare berbici; (89) ed ebbene due per bisante. Tornando con le sue pecore, un fiume ch'aveva passato era molto cresciuto per una grande pioggia, che era istata. Stando alla riva, brigossi d'accivire in questo modo che vide un pescator povero con un suo burchiello a dismisura piccolino, sì che non vi capea se non il Villano, e una pecora per volta. Lo Villano cominciò a passare con una berbice, e cominciò a vogare. Lo fiume era largo. Voga e passa. -- E lo Favolatore restò di favolare, e non dicea più: e messer Azzolino disse: che fai? vai oltre. Lo Favolatore rispose: Messere lasciate passare le pecore, poi conteremo lo fatto, che le pecore non sarebbono passate in un anno: sì che intanto puotè bene ad agio dormire." (90)

Scarno com'è questo stile di narrazione, è pur vivo: qui la sintassi governasi da quella sola grammatica, ed è la e perpetua, la quale in ogni lingua vien suggerita dalla natura a tutti gli uomini sì che si intendano facilmente fra loro. Pochissime delle parole sono antiquate, e l'evidenza di tutte le altre le serbò sino a' giorni nostri. Scorre per entro il racconto una certa grazia d'ironia, così che se la data non foss avverata darebbe da credere che lo scrittore mirasse con la sua breve e non mai terminata novella a deridere i novellatori del Decamerone che non rifiniscono mai di prosare e di ascotarsi da sè. Alle volte anche quegli antichissimi s'industriavano d'aiutarsi di molte parole a ingrandire le descrizioni, e accrescere il calore degli affetti; ma o che la povertà di vocaboli della lingua ne gl'impedisse, o che non avessero ancora imparato come intrecciarle, incominciavano alle volte con un po' di rettorica, e si tornavano sempre alla lor semplice brevità. Anzi l'autore in quest'altra novella par che si fermi a mezzo per indigenza di locuzioni, e s'affretta a finire il racconto suo come può. --

"Tanto amò costei Lancialotto ch'ella venne alla morte, e comandò, che quando sua anima fosse partita dal corpo, che fosse arredata una ricca navicella, coperta d'un vermiglio sciamito con un ricco letto ivi entro, con ricche e nobili coverture di seta, ornato di ricche pietre preziose; e fosse il suo corpo messo in su questo letto vestito de' suoi più nobili vestimenti, e con bella corona in capo ricca di molto oro, e di molte ricche pietre preziose; e con ricca cintura, e borsa. Ed in quella borsa aveva una lettera dello infrascritto tenore. Ma in prima diciamo di ciò che va dinanzi alla lettera. La Damigella morio del mal d'amore: e fu fatto de lei ciò che ella aveva detto della navicella sanza vela, e sanza remi, e sanza niuno sopra sagliente; e fu messa in mare. Il mare la guidò a Camalot, e ristette alla riva. Il grido fu per la Corte. I Cavalieri, e Baroni dismontaro de' palazzi; e lo nobile Re Artù vi venne; e maravigliandosi forte molti, che sanza niuna guida questa naviceRa era così apportata ivi. Il Re entrò dentro; vide la Damigella, e l'arnese. Fe' aprire la borsa; trovaro quella lettera. Fecela leggere, e dicea così. A tutti i Cavalieri della ritonda, manda salute questa Damigella di Scalot, siccome alla miglior gente del mondo. E se voi volete sapere perch'io a mio fine sono venuta, ciò è per lo migliore Cavaliere del mondo, e per lo più villano, cioè Monsignore Messer Lancialotto de Lac, che già nol seppi tanto pregare d'amore, ch'elli avesse di me mercede. E così, lassa, sono morta per bene amare, come voi potete vedere." (91)

Se fosse piaciuto al Boccaccio di abbellire e allungare per via di dizioni abbondanti e numerosa orazione questo racconto, com'ei pur fe' di que' molti ch'ei derivò da' romanzi, ei di certo si sarebbe giovato mirabilmente delle circostanze dell'amore, e della morte della giovinetta, e le avrebbe disposte e colorite in maniera da conferire, più verosimiglianza alla bizzarra invenzione. Se non ohe forse volendo troppo descrivere la fanciulla morta vestita a nozze, e il cadavere ramingo nel mare senza certezza di sepoltura, e far parlare la giovinetta morente confortandosi della speranza di manifestare al mondo il cavaliere che non riamandola la lasciava perire, la rettorica avrebbe raffreddata la fantasia del lettore, e sparpagliate tutte quelle immagini, e affetti ch'escono a un tratto spontanei dalla schietta ripetizione delle parole senz'arte -- La damigella morio del mal d'amore; e fu fatto di lei ciò che ella aveva detto della navicella sanza vela, e sanza remi, e sanza niuno sopra sagliente; e fu messa in mare. L'aridità di quasi tutti que' primi narratori è talor compensata dalla libertà alla quale essi lasciano la mente del lettore a sentire e pensare da sè.

Quanto più le scritture vengono verso l'età del Boccaccio, tanto più abbondano di vocaboli, e di membretti annodati da particelle e disposti a periodi men rotti e più numerosi. Gli artificj della sintassi si moltiplicavano per via di traduzioni e imitazioni libere dal Latino, e moltissime ne giacciono inedite, con titoli strani. La novella della vedova di Petronio Arbitro è una delle favole d'Esopo che gli Accademici della Crusca allegano sotto l'anno 1335. -- "Amandosi per naturale amore la moglie col marito, avvenne che la morte privò la moglie del marito suo, ma non la privò dell'amore. Essendo portato alla fossa a sotterrare, la moglie si puose sopra il sepolcro, e quivi piagneva continuamente, contristando diverse parti del corpo, cioè le sue tenere guancie con l'unghie, quasi tutte squarciandole; con l'amare lagrime, gli occhi; e la sua bocca, con forte gridare. E al sepolcro fece una sua capannella, propostasi di mai non partirsi indi per acqua, nè per vento, nè per minaccie, nè per prieghi, nè per la scura notte" e conclude: -- "E per questo possiamo comprendere quanto in femmina fuoco d'amor dura, se l'occhio o il tatto spesso non l'accende; onde quella è falsa opinione che gli uomini tengono, cioè d'essere ciascuno cordialmente amato dalla sua donna. Ma la morte certo fa presto dimenticare, e massimamente i mariti alle mogli; e solo è una al mondo, che mantiene fede e amore, e questa tale moltissimi la credono avere, e non l'hanno." (92) Questi racconti tolti a prestito da' Latini erano sì trasformati da parere avvenimenti recenti. Gl'imitatori benchè derivassero dagli originali molti nuovi espedienti alla loro sintassi, scansavano, forse per necessità di procacciarsi lettori fra il popolo, i latinismi nelle parole. Talvolta, per ajutare la gravità e l'armonia delle loro sentenze, intarsiavano versi de' poeti nuovi, senza le rime: così nella moralità alla novella di Petronio tu vedi intera una terzina di Dante --

Per lei assai di lieve si comprende,
Quanto in femmina fuoco d'amor dura.
Se l'occhio, e il tatto spesso nol raccende. (93)

Alcuni versi così tolti da quel poema s'osservano nel Decamerone; anzi pare, che il Boccaccio verseggiasse qua e là il suo discorso; non così forse per intenzione, come per la sua lunga consuetudine d'armonizzare la prosa. Ei più ch'altri riconcilio parole popolari e poetiche, e la semplicità del nuovo idioma con la gravità e varietà della sintassi latina; e diè grazia a moltissimi idiotismi; e forse moltissimi ne inventò, da che non sono da leggersi in vertin altro scrittore. Insegnò a radunare molte frasi esprimenti idee minime e inutili: ma con nesse in un solo periodo; vanno temprando la lunghezza de' periodi con arte a cadenze di lunghe parole sonanti e di trasposizioni nella sintassi. Questi ed altri espedienti furono avvertiti, e con l'autorità del Decamerone prescritti da molti; benchè niuno, ch'io sappia, notò che il Boccaccio per aiutarsi anche della prosodia de' Latini andò traducendo assai versi, e mentre la lor armonia gli suonava intorno all'orecchio, inserivali nel suo libro. Diresti ch'ei scrivesse il Proemio leggendo le Eroidi d'Ovidio -- "Le donne sono molto men forti che gli uomini, a sostenere. Il che degli innamorati uomini non avviene, siccome noi possiamo apertamente vedere. Essi, se alcuna malinconia, o gravezza di pensieri gli affligge, hanno molti modi da alleggiare o da passar quella; perciocchè a loro, volendo essi, non manca l'andare attorno, udire e veder molte cose, uccellare, cacciare, pescare, cavalcare, giucare o mercatare: de' quali modi ciascuno ha forza di trarre o in tutto o in parte l'animo a sè, e dal noioso pensiero rimuoverlo, almeno per alcuno spazio di tempo, appresso il quale con un modo o con altro, o consolazion sopraviene, o diventa la noja minore" --

Ut corpus, teneris ita mens infirma puellis:
Fortius ingenium suspicor esse viris.
Vos, modo venando, modo rus geniale colendo,
Ponitis in varia tempora longa mora.
Aut fora vos retinent, aut unctae dona palaestrae:
Flectitis aut freno colla sequacis equi.
Nunc volucrem laqueo, nunc piscem ducitis hamo
Diluitur posito serior hora mero.
His, mihi summotae, vel si minus acriter urar,
Quod faciam, superest, praeter amare, nihil. (94)

Tuttavia che la lingua latina, anche vivente il Boccaccio, fosse l'unica letteraria e continuasse a regnare per altri due secoli, s'è mostrato poc'anzi. E quanto più ripulivasi, tanto l'Italiana s'immiseriva per povertà di scrittori. Il dialetto Fiorentino divenne sempre più ritroso alla penna: onde le scritture Italiane di tutto il secolo XV e le poesie dell'età di Lorenzo de' Medici sono scorrettissime nella sintassi, e quel ch'è peggio intarsiate di crudissimi latinismi; e pare che quegli uomini non potessero dettare una lettera a' loro domestici che non fosse mezzo latina. Quando poi sul principio del secolo XVI vol1ero pur provvedere la loro patria una lingua sua propria, s'avvidero che innanzi tratto importava di depurarla dalla troppa latinità; e forse per lo stile alquanto latino le Stanze di Poliziano oggi ammirate da tutti, erano allora tenute in pochissimo conto: (95) nè contro al poema di Dante allegavano ragioni molto diverse. (96) Così le applicazioni d'una dottrina sana per sè e necessaria, furono rigorose insieme e arbitrarie; partorirono liti puerili e sofistiche, e precetti di lingua peggio ch'inutili: nè a que' tempi, a dir vero, potevano riescire altrimenti.

Que' primi ordinatori a della lingua e della grammatica italiana, non avevano, dal poema di Dante in fuori, alcuna opera nella quale la moltitudine, la novità, e la profondità delle idee delle immagini e delle passioni avessero partorito. gran numero e varietà di locuzioni e parole, ed energia di ardita sintassi: e dall'altra parte niuna lingua poetica, e mench'altra quella intrattabile ad ogni mortale fuorchè dal solo suo creatore, potrà mai somministrare norme alla prosa. Inoltre il Bembo e gli altri avevano studiato sin dalla puerizia, e scritto e pensato d'ogni cosa letteraria in latino. E non pure l'ammirazione a' grandi esemplari, ma i precetti rettorici degli autori Romani, e la necessità di secondarli in una lingua morta, gli aveano domati alla servitù dell'imitazione. Era radicato nella loro anima il dogma, che a scrivere in qualunque lingua fosse necessario imitare religiosamente alcuni modelli. (97) Inoltre nel discorso giornaliero facevano uso di dialetti discordi i quali ripugnavano a lasciarsi scrivere; e s'anche alcuni critici avessero potuto congetturare che il Boccaccio scrisse il Fiorentino com'ei l'udiva dal popolo, essi pur lo vedevano all'età di Leone X intristito e deforme. Studiavano a rimondarlo di latinismi idiotismi e sgrammaticamenti; e ampliarlo esaltato finchè smar risse qualunque traccia municipale, e paresse patrimonio letterario di tutta l'Italia.

Non è dunque difficile l'indovinare fra quante strette e con quale perplessità i primi grammatici procedessero a scrivere la. lingua Italiana, e a stabilirla sopra regole generali e perpetue. Il Bembo imbevuto di purissima latinità, doveva studiare fin anche le sue lettere famigliari a guardarle da latinismi; il che gli riescì quasi sempre: ma non potè fare che quanto ei dettò in Italiano non ridondasse d'idiotismi Veneziani, i quali se non fossero stati protetti sino d'allora dall'autorità del suo nome, sarebbero stati poscia infamati fra' solecismi. Gli scrittori Fiorentini a anch'essi pericolavano di scambiare riboboli per atticismi gentili. Aggiungi che mai non s'avvidero "Essere impossibile di ridurre a scienza atta a potersi insegnare e imparare il processo, con che la natura converte in lingue letterarie i rozzi dialetti." E dialetto imbarbarito non era a que' dì il Fiorentino? Finalmente in penuria d'autori i quali con la moltitudine di parole e dizioni evidenti, native ed elegantissime, ed artificj di costruzione, e periodi musicali, suggerissero precetti ed esempi, que' primi precettori della lingua ricorsero di comune consentimento al Boccaccio. Tuttavia se non avessero giurato in lui con troppa superstizione, non credo che per allora avrebbero saputo trovare soccorso migliore a tante difficoltà.

Era il Boccaccio dotato dalla natura di facondia a descrivere minutamente e con meravigliosa proprietà ed esattezza ogni cosa. Mancava al tutto di quella fantasia pittrice la quale ondensando pensieri, affetti, ed immagini li fa scoppiare impetuosamente con modi di dire sdegnosi d'ogni ragione rettorica. Però in tanti suoi libri di versi e rime pare tutto poeta nell'invenzione, e non mai nello stile; di che i fondatori delI'Accademia della Crusca atterriti come di cosa fuor di natura, esclamavano, e ricopierò le loro eleganze -- Verso, ch'avesse verso nel verso non fece mai, o così radi, che nella moltitudine de' lor contradi, restano come affogati. (98) -- Bensì quella su prodigalità di parole sceltissime, e i sinonimi accumulati, e i significati purissimi, schietti per lo più di metafore, e vaghi di vezzi nella giuntura delle frasi, giovano a lasciar osservare tutti gli elementi della sua prosa: e scemasi alquanto la somma difficoltà di scevrare le leggi certe grammaticali, dalle arbitrarie de' rettori; e la materia perpetua della lingua, dalle forme mutabili dello stile. Fra quante opere abbiamo del Boccaccio, la più luminosa di stile e di pensieri a me pare la Vita di Dante: e la sua Lettera a Pino de' Rossi a confortarlo nell'esilio, è caldissima d'eloquenza signorile; onde i vocaboli corrono meno lenti e più gravi d'idee che nelle novelle. Le tante macchie di lingua scoperte dagli Accademici in que' due volumetti, (99) sono invisibili a me, colpa forse del non saperle discernere. Fors'anche -- dispiacquero, perchè paiono scritti in lingua piuttosto Italiana che Fiorentina, e sono meno ricchi di parole non necessarie, più rigorosi nella sintassi, e meno vezzosi di quelle grazie le quali, per essere più dell'autore che della lingua, non furono imitate mai che non paressero smancerie. Loderò dunque ogni superfluità di parole in quanto il Decamerone somministra maggiore numero d'osservazioni grammaticali; e tanto più quanto la qualità diversa di cento novelle, e la varietà degli umani caratteri che vi sono descritti, porsero occasioni all'autore di applicare ogni colore e ogni stile alla lingua, e farla parlare a principi ed a matrone e a furfanti e a fantesche, e a tonsurati ed a vergini, ed a chi no? onde in questo il Boccaccio,

Sit Genius, natale comes qui temperat astrum,
Naturae deus humanae, mortalis in unum
Quodque caput, vultu mutabilis, albus et alter.

Che se io nella descrizione della pente non lo veggo narratore più terribile di Tucidide; nè più potente di Cicerone e di Demostene nelle dicerie de' suoi personaggi; nè più tragico d' Eschilo e d'ogni tragico nella rappresentazione di forti anime lottanti contro a passioni e sciagure; nè più arguto di Luciano a deridere -- insomma, se io non ridico quanto tutti dicevano nel secolo XVI e molti poscia ridissero, e alcuni vanno tuttavia ridicendo, non però nego ch'ei sia scrittore mirabile, ed è: perchè senz'essere sommo in alcuna di tante guise di stile, seppe trattarle felicemente pur tutte; il che non incontrò a verun altro, o a rarissimi --

Nè in tante lodi chieggio altro che modo.

E' mi par tempo che tacciano esagerazioni sì puerili; e ne parlo quand'anche un critico illustre Francese giudica, che il Boccaccio avendo avuto sotto gli occhi la storia di Tucidide e il poema di Lucrezio, abbia emulato le loro doti diverse in guisa, che gli venne fatto di superarli "e descrisse la peste da storico, da filosofo e da poeta." (100) S'ei vedesse l'uno e l'altro di quegli scrittori, non so: ad ogni modo bastava il Latino, il quale segue di passo in passo Tucidide. Molta parte dell'Italiano sembra parafrasi, non pure d'avvenimenti originati per avventura e in Atene e in Firenze dalla medesima epidemia, ma ben anche di riflessioni e minute particolarità, nelle quali è improbabile che più scrittori concorressero a caso. Il merito della descrizione della pestilenza nel Decamerone non risulta così dallo stile -- che raffrontato a quel di Tucidide e di Lucrezio è freddissimo -- come dal contrasto degl'infermi, e de' funerali, e della desolazione nella città, con la gioia tranquilla e le danze e le cene e le canzonette e il novellar della villa. In questo il Boccaccio, quand'anche avesse imitata la narrazione, la adoperò da inventore. Bensì guardando ciascuna descrizione da sè, la pietà ed il terrore prorompono insistenti dalle parole del Greco, e s'affollano; ma senza confondersi, da ch'ei procede con l'ordine che la natura diede al principio, al progresso, e agli effetti di tanta calamità. Radunando circostanze due volte tante più che il Boccaccio, le dipinge energicamente in pochissimi tratti sì che tutte cospirino simultaneamente a occupare tutte le facoltà dell'anima nostra. Boccaccio si sofferma a bell'agio di cosa in cosa pur a sfoggiarle con quel suo pennelleggiare che da' pittori si chiamerebbe piazzoso; e le amplifica in guisa da far sospettar ch'egli esageri -- Maravigliosa cosa è ad udire quello che io debbo dire: il che se dagli occhi di molti e da' miei non josse stato veduto, appena che io ardissi di crederlo, non che di scriverlo, quantunque da fededegno edito l'avessi. E non gli basta -- Di che gli occhi miei (siccome poco davanti è detto) presero trall'altre volte, un dì così fatta esperienza -- nella via pubblica. (101) Vero è che Tucidide narra con maggiore efilcacia, perchè n'ebbe esperienza più certa -- Ho patito di quel morbo anch'io, e l'ho veduto patire dagli altri; (102) ma s'astiene d'ogni esclamazione rettorica, e da professioni di verità. La tempra diversa de' loro ingegni e la diversità de' loro studi gli ammaestrava a disegnare e colorire i medesimi fatti in due maniere affatto diverse. Le arti meretricie dell'orazione che il Boccaccio derivò con ammirazione da' rettori Romani, non erano ancora fatturate da Isocrate e da que' parolaj, nè celebrate in Atene all'età di Tucidide; ond'è il men Attico fra gli Ateniesi, perchè modellava il suo dialetto materno sovra la lingua universale e schiettissima discesa da Omero,

Cujusque ex ore profusos
Omnis posteritas latices in carmina duxit
Amnemque in tenues ausa est deducere rivos.

Altrove, spero, ho appurato che la lingua Omerica non fu congegnata a mosaico di dialetti diversi, com'è generale opinione; ma sì che fu studiata da poeti e da storici a infondere qualità letteraria a' dialetti delle loro città, sì che scrivendoli riescissero più agevoli a tutta la Grecia (103) -- e perchè quella lingua primitiva era nazionale e vivente, i dialetti acquista vano decoro per essa, e non perdeano vigore. Il Boccaccio modellando l'idioma Fiorentino su la lingua morta de' latini, accrescevagli dignità, ma gli mortificava la nativa energia. Finalmente Tucidide adopera i vocaboli quasi materia passiva, e li costringe a raddensare passioni immagini e riflessioni più molte che forse non possono talor contenere; ond'ei pare quasi tiranno della sua lingua. Or il Boccaccio la vezzeggia da innamorato. Diresti ch'ei vedesse in ogni parola una vita che le fosse propria, nè bisognosa altrimenti d'essere animata dall'intelletto; e però a poter narrare interamente, desiderava lingua d'eloquenza splendida e di vocaboli eccellenti faconda (104) -- La loro eccellenza gli era indicata dall'orecchio ch'egli a disporli nella prosa aveva delicatissimo. Certo è che l'esteriore e permanente beltà d'ogni lingua è creata da' suoni, perchè sono qualità naturali e le sole perpetue nelle parole. Tutte altre qualità le ricevono dal consenso dell'uso che è spesso incostante, o dalle modificazioni dissimili di sentire e di pensare degli scrittori. Non però è meno vero che quanto maggior numero di parole concorre a rappresentare il pensiero, tanto minore porzione di mente umana tocca necessariamente a ciascuna d'esse; bensì la loro moltitudine per la varietà continua de' suoni genera più, facilmente armonia. Quindi ogni stile composto più di suoni che di significati s'aggira piacevole. intorno alla mente, perchèla tien desta, e non l'affatica. Ma se l'armonia compensa il languore, ritarda assai volte la velocità del pensiero; e il pensiero acquistando chiarezza dalle perifrasi, perde l'evidenza che risalta dalla proprietà e precisione dalle espressioni. Sì fatti scrittori risplendono, e non riscaldano; e dove sono passionati, sembrano pia addestrati che nati all'eloquenza; perciò tu non puoi persuaderti che mai sentano quanto dicono: e narrando, descrivono e non dipingono: nè vien loro mai fatto di costringere la loro sentenza in un conflato di fatti, ragioni, immagini e affetti, a vibrarla quasi saetta che senza fragore nè fiamma, lasci visibile il suo corso in un solco di calore e di luce e arrivi dirittissima al segno. Bellissimi scrittori pur sono nel loro genere; non però veggo come altri possa ammirare in essi riunite in sommo grado le doti dello stile de' filosofi, degli storici, e de' poeti. Sono doti dissimili, o che m'inganno, da quelle del Boccaccio; e n'è prova che il loro abuso le fa degenerare in difetti al tutto contrarj. Tucidide ti affatica imponendoti di pensare senza riposo; e il Boccaccio forse t'annoia come chi non rifina di ricrearti con la sua musica. È stile a ogni modo felicemente appropriato a donne briose e giovani innamorati che seggono novellando a diporto --

Haec sat erit, divae, vestrum cecinisse poetam
Dum sedet, et gracili fiscellam texit hibisco.

Se libri di politica, come oggi alcuni n'escono dettati in quell'oziosissimo stile possano educare a sensi virili, e pensieri profondi, non so. Di ciò veggano gl'Italiani, o più veramente, quando che sia, i loro posteri. Ma io guardando al passato non posso da tutta questa meschina storia del Decamerone se non desumere, che la troppa ammirazione per quel libro insinuò nella lingua infiniti vizi più agevoli a lasciarsi conoscere che a riparare; e guastò in mille guise e per lungo corso di generazioni le menti e la letteratura in Italia. Or se taluni incominciassero a' dì nostri a cumulare sul Decamerone tutte le lodi meritate de' lavori più nobili dell'umano ingegno, non sarebbero essi disprezzati per l'appunto dai critici che le ripetono? Ma discendono tutte per tradizione continuata di critici e d'accademie e di scuole sino dal secolo di Leone X. Le tradizioni letterarie, nè giova indagarne il perchè, hanno più forza che le politiche e le religiose, anche negli uomini i quali possono considerare ogni cosa con filosofica libertà.

Poichè dunque tutto intero il secolo XV non somministrava al XVI alcun esemplare di prosa dalla quale potessero derivarsi leggi alla lingua, e fra tanti libri scritti da molti e anche dal Boccaccio nel secolo XIV alcuni sentivano troppo d'idiotismi Fiorentini, ed altri di troppa latinità, i primi grammatici s'attennero al solo Decamerone. Parve più che sufficiente all'intento per quella varietà, com'è detto dianzi, de' personaggi, de' costumi delle passioni, e quindi di dialoghi nelle Novelle; sì per la profusione delle parole, e sì per gli spiriti e lo splendore che il Boocaccio trasfuse dalla lingua latina al dialetto Fiorentino. Ma non videro che lo snaturò e trasformò in idioma Italiano, e lasciò dopo Dante e il Petrarca bellissimo un esempio di lingua letteraria, che quantunque non parlata in veruna città dell'Italia, fosse scritta e intesa da tutte. Se non che nè men gli altri che poi se n'accorsero hanno osservato che innanzi tratto importava di separare con precisione accuratissima nella lingua del Decamerone gli elementi che comportavano, da quelli che rifiutavano di contribuire alle leggi perpetue della grammatica. Non accertarono sè medesimi e il mondo -- Quanta porzione dell'arte di quel modo di scrivere fosse inerente alla lingua, e quindi capace di regole; e quanta all'ingegno dell'autore, e quindi difficilissima se non umanamente impossibile ad insegnarsi. Inoltre -- Quali fossero le forme accidentali e mutabili della lingua su le quali nessun numero di regole potrebbe avere efficacia; e quali le forme che la lingua per l'intrinseca indole sus recava perpetue regole alla materia: e sovra queste soltanto le leggi potevano stabilirsi evidenti, concatenate e certissime. Finalmente -- Quanta porzione della lingua del Decamerone fosse parlata nel secolo XVI in Firenze, e quanta fosse solamente scritta ne' libri del secolo XIV; e se la lingua letteraria della nazione fosse o potesse mai essere lingua parlata in alcuna parte d'Italia. Se queste cose fossero state preavvertite forse i precetti sarebbero stati sino d'allora esaltati a principj assoluti, e applicabili in tutti i tempi in Italia; o non foss'altro quel secolo sarebbe stato più ricco di grandi scrittori che di grammatiche voluminose. Invece tutta la lingua del Decamerone fu giudicata perfetta, e la sola che si dovesse imparare, e scrivere senza alterazione veruna e potesse parlarsi.

Così ogni frase, ogni parola, ogni accento di quel libro furono giustificati con la sottigliezza de' legisti e de' Teologi casuisti, e si convertirono in altrettanti precetti di lingua e di stile. Le eccezioni alle regole furono anch'esse ridotte a ragioni, e sotto regole minutissime; e per insegnare a imitare cose che non vogliono accomodarsi a ragioni nè leggi, nè imitazione, dicevano: Fa d'imitare, se sai -- Il dialetto Fiorentino di cento e cinquant'anni addietro -- Le modificazioni che il Boccaccio vi fe' per ingentilire gl'idiotismi -- Le locuzioni ch'ei vi introdusse di fantasia -- La latinità ch'ei trasfuse nella sintassi -- I lenocinj ch'egli accattò dagli antichi rettori— -- Gli espedienti suggeritigli dall'orecchio a rotondare periodi, e il vezzo, fra gli altri suoi, di calcare gli accenti su le corisonanti troncando talor duramente le ultime sillabe; (105) il che è barbarismo apposto meritamente dal Machiavelli a' dialetti lombardi; (106) sensachè l'armonia in questa lingua alimentasi di vocali -- I pleonasmi, poscia prescritti fra le bellezze dell'arte, (107) --— I mosaici di particelle, come —a dire, conciossiacosachè e tutte le sue parenti amorevoli a' predicatori e alla declamazione accademica; ma la natura della mente umana desidera che tutti i nessi delle idee sieno schietti, spediti e pieghevoli a riunirle e disporle senza indugiarle -- Le irregolarità di costruzione inevitabili forse nell'età sua (108) -- I sensi diversi assegnati per la poirertà della lingua alle stesse parole e talvolta anche nello stesso periodo; ed è uno de' peggiori vizi radicatisi negli scrittori, da poi che su l'autorità del Boccaccio fu tenuto per eleganza (109) -- Le intarsiature d'incisi e parentesi che frastagliano il discorso, e lo fanno languire a forza di chiose e ripetizioni e intralciano il senso con superflue parole; e strascinano stucchevolmente le frasi; ed hanno forse decoro nella perorazione degli innamorati nel Decamerone; (110) ma furono perversamente ammirate che gli scrittori per natura eloquenti si fecero per imitazione chiosatori ciarlieri delle proprie parole. (111) -- Le voci di pronuncia soilinguata e incertisma, per la infanzia dell'arte di scrivere, e per le capricciose modulazioni e articolazioni del popolo; onde dal Decamerone furono registrate tutte ne' vocabolari fra gli atticismi; così anche i solecismi plateali furono affettati dagli autori che han nome di classici. (112) -- Le guaste inflessioni dei verbi (113) -- I vocaboli scritti per vezzo in varie maniere egualmente tenute corrette; e recando suoni alquanto diversi hanno il medesimo significato nè più nè meno, e i loro esempi giustificarono l'affettazione contagiosa fra mediocri scrittori e tennero perplessa l'ortografia (114) -- I proverbi e modi di dire popolari che ogni qualvolta s'intendano nelle scritture sono ardenti di rapidità e d'energia; ma quando si stanno col volgo e.non escono che da poche città, sentono di plebeo, e per lasciarsi intendere soffirmano il lettore ad indovinarli, o lo scrittore a spiegarli; per due che il Machiavelli ne mise in una commedia, scrisse una lettera al Guicciardini che non intendevali: (115) nondimeno i celebri Fiorentini vanno a un'ora innestandoli nelle storie, per efficacia di brevità, e stemperandoli in frasi, per necessità di chiarezza; (116) e l'Accademia della Crusca tuttavia detta agli scrittori di giovarsi di proverbi che per quanto siano illustri in Firenze parranno pur sempre oscurissimi agl' Italiani. (117) -- La prodigalità di parole che sembrano profuse meno ad esprimere che a definire le idee, e quanto lo scrittore più affannasi a farsi intendere tanto più confonde la sua mente e l'altrui; or la verbosità è più noiosa negli imitatori del Boccaccio che professano di scrivere storia. (118) -- Le varianti de' codici mal copiati; e così i primi Accademici Fiorentini d'una voce sola facevano due o più significati diversi. (119) -- Gli spropositi e i barbarismi che il Boccaccio mise in bocca ad arte a suoi personaggi. (120) -- Le sue bizzarrie (121) -- tutto insomma fu minuzzato; e magnificata ogni.minuzia nel Decamerone; e descritte tutte quante or dall'uno or dall'altro, sotto nomi di ricchezze, proprietà, e figure di lingua. Non però poteva venire mai fatto a veruno di conciliare tanta infinità di precetti con metodo che ne agevolasse la pratica. Le dottrine e le regole e le loro applicazioni cozzavano fra lor. nelle pagine e nella mente di chi le dettava. Tanto più dunque le dispute fra diversi grammatici intricandosi le une su le altre, crescevano atroci, oziose, lunghissime, ed occuparono tutti i cent'anni del secolo XVI.

Così la lingua che sola può dare progresso alla letteratura, impedivala. E nondimeno la letteratura era allora da tutti i secoli precedenti, e dalle nuove rivoluzioni del mondo versata sovra l'Italia a torrenti. Tutta la poesia, l'eloquenza e la storia e la filosofia de' Romani e de' Greci rivissero quasi di subito con la invenzione della stampa. Gli annali della terra e i nuovi costumi del genere umano scoperti con l'America, eccitavano la curiosità degli ingegni. I mari d'allora in poi incominciando ad arricchire altri popoli, l'opulenza che avevano portato -- alle città italiane non potendosi più omai applicare al commercio, compiacque al lusso e alle belle arti. I palazzi arredati di monumenti e di biblioteche educarono antiquari, e scrittori d'erudizione e accrescevano la suppellettile letteraria. Accrescevala anche la servitù in che declinarono le città libere; da che i nuovi signori costringendo gli uomini generosi al silenzio, stipendiavano lodatori; nè vi fu secolo nel quale l'adulazione sia stata bramata con tanta libidine, o sì sfacciatamente professata ne' libri. Le controversie inerenti agli oracoli della Bibbia erano allora fierissime, universali. E quanto l'Europa in questa età sua decrepita ciarla di speculazioni politiche, tanto allora farneticava di religione; se non che le condizioni de' regni e gl'interessi de' principi e più assai degli Italiani pendeano, non come oggi da pubblicani che di carta fanno danaro a nudrire soldati, bensì da dottori che di teologia facevano ragioni a sommuovere popoli; e perché quegli studi fruttavano ecclesiastiche dignità, produssero una moltitudine d'uomini letterati. Ma le turbe de' mediocri opprimevano i pochissimi grandi. L'eloquenza era arte ambiziosa. nelle università; la troppa dottrina snervava l'immaginazione; e la sentenza -- intorno alla quale s'aggira tutta la poetica d'Aristotile -- "Che l'uomo è animale imitatore" -- quantunque variamente chiosata da molti, era superstiziosamente inculcata e obbedita in questo da tutti -- "Doversi imitare, non la natura, ma gli imitatori della natura." Però le lettere giovando alle arti a' governi alla chiesa e alle scuole, non esaltavano le passioni, non illuminavano la verità nelle menti, non ampliavano i connni dell'arte, e mortificavano la originalità degli ingegni. E per la nazione non v'era lingtia; perchè lo scrivere e intendere la Latina era, meritamente privilegio di dotti; e l'Italiana, comechè men parlata che intesa da tutti, rimanevasi patrimonio di grammatici che disputavano fin anche intorno al suo nome.

Le nobili opere che sopravvissero alle altre mille di quella età sono dettate in Latino. Il Sigonio neHe sue storie percorrendo lo spazio di venti secoli dalla epoca de' primi Consoli di Roma sino alle repubbliche Italiane, fu primo a traversare la solitudine tenebrosa del Medio Evo. Diresti che un Genio illumini tutto il suo corso; e trasfonda abbondanza, splendore e vigore alla sua Latinità. Nondimeno le poche cose che gli vennero scritte in lingua Italiana sono volgarissime e barbare. (122) Vedeva che. ad impararla gli bisognava perdere molta parte della sua mente ne' laberinti delle nuove grammatiche; ond'esortò i suoi concittadini che se avevano cura della posterità, le parlassero solamente in Latino. (123) Il che non s'ha da imputare a freddezza di carità per la patria, quando a volere descrivere in Italiano le trasformazioni universali dell'impero Romano, quel grand'uomo sarebbe stato ridotto ad andare accattando i vocaboli e l'orditura d'ogni sua frase nelle Novelle. Altri a modellare i loro pensieri con dignità, scriveano da prima le storie recenti della loro patria in Latino, e le traducevano in Italiano da sè; (124) e concorrevano ad arricchire la lingua letteraria. Frattanto gli autori Romani somministravano molto maggiore e nobilissimo numero d'esemplari ­ allo stile. La loro lingua governata da leggi assolute ed evidentissime aveva per giudice tutta l'Europa, mentre la fama d'ogni scrittore in Italiano pendeva dalla sentenza di gloriosi pedanti i quali giudicavano, raffrontando ogni nuovo libro al Decamerone. Concedevano che il Machiavelli altri potesse arditamente paragonare a Cesare per la chiarezza; e a Tacito per la brevità e l'efficacia. -- Ma era nato in mal secolo -- Scrisse del tutto senza punto sforzarsi -- Non volle prendersi alcuna cura di scelta di parole; e però non potevano udir senza risa chiunque nella lingua. recasse a paragone le Storie del Machiavelli alle Novelle del Boccaccio; (125) e ridevano di tutte le generazioni avvenire. Non fa meraviglia che dopo tante censure de' Principi della Crusca contro al più celebre de' Fiorentini, tutti gl'italiani scrivessero tremando, tanto più quanto l'autorità di dispensare la fama era d'anno in anno convalidata in quell'Accademia dalla servitù che veniva occupando l'Italia.

La lingua, com'è detto di sopra, era nata nel secolo XIII e XIV dalla libertà popolare; e se gli Italiani nel XV quand'erano meno ossequiosi a' Papi e più sicuri da' forestieri -- e fu il solo tempo -- si fossero giovati di quel lunghissimo spazio d'anni a costituirsi indipendenti in nazione, gli scrittori si sarebbero immedesimati di necessita con la loro patria, ed avrebbero ampliata una lingua men artificiale e più generosa, scritta insieme e parlata, e che non fu mai conosciuta,

At qualem nequeo monstrare et sentio tantum,

nè si conoscera mai forse in Italia. Se non che le città attendevano a contendere più per via d'ambasciadori che d'eserciti fra di loro, e gli scrittori contemplavano oziosamente l'an tica Roma ed Atene più che l'Italia; e scrivendo in Latino si ridussero a comunità diversa al tutto dalla nazione. Lorenzo che alloramai cominciava a dileguarsi per sempre; tuttavia de' Medici forse aspirò, e non potè afferrare l'opportunità ridiede onore alla lingua. La sua morte accompagnata d'invasioni straniere e commozioni in tutta l'Italia, e da un nuovo governo popolare in Firenze, condusse una brevissima epoca propizia a' forti ingegni. Il Machiavelli scriveva allora; e morì poco innanzi che i Papi e i loro bastardi ammogliati a bastarde di monarchi forestieri togliessero ogni senso e ogni voce di libertà a' Fiorentini. Però se gli uomini dotti còntinuarono a scrivere in Latino, il più della colpa è da apporsi a' loro maggiori che avevano trascurato di provvedere i lor discendenti di lingua e di libertà; e quindi la moltitudine degli scrittori si rimase più sempre, quasi fosse un'Aristocrazia stipendiata ad amministrare i tesori della mente umana. Forse anche l'ambizione di sì misera preminenza indusse molti ad anteporre nel secolo XVI una lingua morta, come più rimota dal popolo. Alcuni innanzi al Sigonio, e specialmente a quando Clemente VII coronò Carlo V a Bologna, perorarono perchè alla lingua Italiana fosse inibito di parlare ne' libri (126) -- quasi che i decreti di Imperadori e di Papi bastassero. L'avviso fu poi suggerito contro la lingua Francese al cardinale Mazzarino, o fatto suggerire da esso, affinchè la dottrina della cieca ubbidienza si perpetuasse sovra la razza Europea. (127) I begl'ingegni invece di ragioni opposero epigrammi, e fecero da savj; perchè niuno s'è più attentato di riparlarne. (128) Ma Napoleone mentre affrettavasi a quella sublimità che al parer suo precipita gli uomini nel ridicolo, impose che i professori leggessero nelle università d'Italia in Latino. Se non che le lingue non cedono nè prevalgono se non per leggi invariabili della natura e del tempo che le vanno procreando l'una dall'altra. Sogliono bensì prosperare nella libertà, ed intristirsi nella servitù. Le loro più dure catene sono procurate per via di leggi grammaticali.

Vero è che non prima sì fatte leggi cominciano a moltiplicarsi ed acquistare autorità potentissima, bastano a darti indizio che un popolo dallo stato libero passa sotto il potere assoluto. La Grecia dopo Alessandro non ebbe più oratori né storici, bensì famosi grammatici alcuni Ge' quali regnarono nelle Accademie de' Tolomei, a costringere alla nuova loro pronunzia i poemi d' Omero. Cesare trattò di grammatica; Augusto insegnavala a Mecenate ed a' suoi nipoti; Tiberio si dilettava di sottigliezze su la notomia de' vocaboli; Claudio scrisse intorno alle lettere dell'alfabeto; (129) e anche a Plinio filosofo toccò di guerreggiare di penna co' maestri del bel dire, e non pare ch'ei n'uscisse senza paura. (130) Ma gli studj liberi in tali condizioni di tempi sono sì fatti; ed a' principi non rincrescono, perchè frappongono comandamenti infiniti e impraticabili in guisa che niuno sappia mai come s'abbia da scrivere. La dominazione Spagnuola, il lungo regno di Filippo II tirannissimo fra' tiranni, e il Concilio di Trento avevano imposto silenzio in Italia anche all'eloquenza degli scrittori, in Latino.

E allora -- mentre l'ozio della servitù intepidiva le passioni; l'educazione commessa a' Gesuiti sfibrava gl'ingegni; i letterati erano arredi di corti spesso straniere; le Università pasciute dai Re, e la Inquisizione le udiva -- l'Accademia della Crusca incominciò ad insignorirsi della lingua Italiana; ed era patrocinata da' Gran Duchi obbedienti agli ambasciadori di Spagna. (131) Cosimo I per cancellare ogni memoria di libertà soppresse tutte le Accademie istituite in Toscana quando le città si reggevano a repubblica, (132) e venne a dilatare la giurisdizione della Fiorentina ch'ei disprezzava. Compiacevasi di vederla agrammaticare a bell'agio, e udirsi paragonare a Cosimo padre della patria: nè da questo in fuori fece verun favore alle lettere. (133) Teneva a' suoi stipendi uno o due scrittori di storie della casa de' Medici; faceva raccogliere da per tutto le copie delle altre scritte con meno adulazione, e le ardeva. (134) Era dunque il Decamerone anche per politica necessità predicato dagli Accademici come unico regolatore della lingua scritta in prosa. Ma dall'avere essi dannate le precedenti edizioni in grazia della loro emendazione critica sovra un testo adulterato a beneplacito del frate Inquisitore Spagnuolo, chi mai potrebbe scolparli?

Si rallegravano ad ogni modo che fosse stato lor conceduto da' Canoni di giovarsi comunque del testo che come pianta di tutto l'Edifizio s'erano proposto, e sopra il fondamento del quale era cresciuta la loro fabbrica. (135) Sperandosi più larga indulgenza, supplicarono il Gran Duca Ferdinando, il quale ne scrisse a Roma insistendo. (136) Ma Sisto V ordinò che anche l'edizione approvata dal suo predecessore fosse infamata nell'Indice. Due famosi, Luigi Grotto per licenza impetrata dalI' nquisizione, e Lionardo Salviati per commissione del Gran Duca -- (137) si provarono di far da critici da teologi, e da moralisti; e pubblicarono le loro emendazioni del Decamerone quasi ad un tempo. (138) Non le ho raffrontate; nè so chi facesse peggio. Lo storico il quale raccolse i giudizi de' dotti narra che il Salviati —-- "Fu biasimato per averne tolte più cose che niun danno arrecavano al buon costume; per avere cambiati a capriccio i nomi di alcuni paesi; per aver ancora mutate talvolta senza necessità le parole, e sconvolto l'ordine de' periodi; per avere interpolati alcuni passi, e aggiunta qualche cosa del suo, e talvolta con gravissimi errori." (139) La novella che il Boccaccio avesse lasciato due testi autografi di lezioni diverse; (140). E i vari codici, benchè tristissimi posseduti da' Fiorentini, palliarono per allora le libidini del Salviati. Nè gli Accademici perdonarono al Grotto l'essere nato a' confini ultimi dell'Italia, dov'ei non poteva esaminare i lor testi; (141) -- inoltre era nato cieco degli occhi, e studiava per aver pane. Nè il Salviati merita d'essere meno compianto. Davvero io non so com'ei non impazzasse mentr'egli, in que' suoi volumi d'avvertimenti sopra la lingua, cercava un assioma grammaticale da quasi ogni sillaba del Decamerone. E studiavasi fin anche di dimostrare perchè delle vocali dell'alfabeto alcune s'hanno da chiamare da femmine, altre da maschi -- la a, la e, -- lo o, lo i, lo u, -- e le consonanti altresl vogliono starsi divise in due sessi. (142)

Non però dalla infinità delle osservazioni ricava alcun principio sicuro; nè d'altra parte propone veruna ipotesi intorno alla quale si possano accogliere quegli accidenti della lingua, ch'ei da prima va magnificando come fenomeni: poi li spiega uno per uno sì che ti paiano proposizioni evidenti per sè, e indipendenti le une dalle altre. E nondimeno l'una è smentita dall'altra, e tutte tendono a stabilire dottrine contradette in Italia dalla esperienza perpetua di cinque secoli -- e sono: Che tutta la lingua si riduce a pochi scrittori Fiorentini del secolo XIV -- Che non è Italiana, ma Fiorentina -- Che l'arbitrio dell'uso risiede nelle alterazioni progressive del dialetto Fiorentino, e ne' decreti dell'Accademia; e tolto altrove, non può avere legittima signoria. A quest'uomo, all'Accademia, e a tutta la loro scuola vuolsi ridire -- Che dialetto umano non può convertirsi in lingua scritta, se non perdendo molte sue qualità popolari, e accogliendone moltissime letterarie in guisa che serbando la intrinseca sua natura, trasformi a ogni modo tutte le sue sembianze -- Che a le qualità letterarie in una lingua sono infuse dal concorso degli scrittori d'ogni città, e d'ogni generazione; onde non è da trovarsi tutta in un secolo solo, nè denominarsi da veruna città -- Che l'uso dipende assolutamente dal popolo; ma di qual POPOLO? e di quel tempo?

Quem penes arbitrium est et jus et norma loquendi.
Or questo loquendi, tanto allegato da Orazio, allude alla lingua de' poeti, che non è mai parlata in terra veruna. Però dove ogni uomo intende e scrive una lingua comune, e niuno parla fuorchè il suo dialetto municipale, la signoria dell'uso anche in prosa è oreata dal POPOLO DEGLI AUTORI, e moderata dall'esempio de' grandi scrittori. E l'Italia n'ebbe tre o quattro per sedolo degni del nome, ciascuno de' quali, come fece Dante e il Petrarca e il Boccaccio, predominando su la lingua trasfusero in essa tutta la loro mente, a e l'arricchirono d'apparenze, diverse secondo la diversa indole delle loro facoltà intellettuali. Ma venne lor fatto, perchè le forze loro naturali operavano potentissime; e raccogliendo la materia della lingua da' libri e da' dialetti, e principalmente dal Fiorentino, non attendevano a sofismi grammaticali, e le davano anima e forma ad arbitrio del genio. Rensì poi che l'autorità delle dottrine accademiche prevalsero, que' molti ingegni ne' quali la natura domanda norma ed aiuto, furono quasi annientati. Non potevano valersi mai nè di tutte le loro facoltà, nè di regole impraticabili; e scrivevano sotto gli occhi di censori che li sgorientavano dal secondare gli uomini più generosi de' loro tempi. Molti altri di più ingegno che studio, angariati dalla servitù, trapassarono alla licenza; e il più dei libri popolari nel secolo XVIi furono composti di concetti e solecismi ad un'ora, senza tinta di,lingua schietta nè cura d'ortografia.

Frattanto il Salviati avendo proposto l'opera sua sopra il Decamerone quasi Preparazione Evangelica, al Vocabolario della Crusca, (143) ei fondò tutti i dogmi dell'Accademia; la quale poscia s'avvide talor degli errori che ne risultarono, e si è studiata di ripararli. Ma perseverò a mantenere l'infallibilità, e l'applicazione delle dottrine; affettò la vigilanza del Santo Ufficio; e s'aiutò fin anche di magistrati e predicatori contra un letterato Sanese che rinnegò le sue leggi. (144) Da prima a levarsi invidia dalle città Toscane, gli Accademici tennero tre anni di consulte intorno al titolo del Vocabolario, e decretarono che si chiamasse della LINGUA TOSCANA. Poscia, affinchè tutto l'onore si rimanesse co' Fiorentini v'aggiunsero: CAVATO DAGLI SCRITTORI E USO DELLA CITTÀ DI FIRENZE. Finalmente con politico temperamento lo nominarono: Vocabolario dell'Accademia della Crusca, senz'altro. (145) Così fu stampato; e la prima volta senz'altre voci se non se del Decamerone e di pochi scrittori contemporanei del Boccaccio; e comechè sia stato poscia allargato con esempj da' secoli seguenti, rimane pur sempre vocabolario di dialetto, ma non di lingua. Senzachè il nome d'Italiana ostinatamente negato. da quella Accademia alla lingua, perpetuò le guerre civili di penna che mai non vennero a tregua; e bastasse: ma talvolta i nobili ingegni hanno parteggiato contro a' nobili ingegni. Il Machiavelli su' primi giorni della contesa rideva dell'Ariosto che non poteva sormontare la difficoltà di mantenere il decoro di quella lingua che egli accattava. (146) E il Galilei quando l'animosità de' grammatici inferocì, s'avventò contro al Tasso. (147) E non pertanto sono i quattro scrittori, che non per la vanità nazionale degli Italiani, o per la vanità d'erudizione de' forestieri, ma per la divinità del loro genio, si meritarono la gratitudine di noi tutti, e soli a mio credere; e certo i quattro indegni della compagnia de' mille esaltati dalle tradizioni di quel secolo millantatore. Or tutti sanno quanto il Salviati congiurò con alcuni grammatici ad aggravare le lunghe sciagure del Tasso, e la sua tendenza alla mania con la quale la natura fa scontare ad alcuni mortali i doni, non so quanto desiderabili, dell'ingegno.

La fortuna del Decamerone animò la gara di que' tanti novellatori a giornate, venuti a noja sin da lor tempi; e poscia per la rarità delle edizioni apprezzati dagli intendenti di libri. (148) Enrico Roscoe, figliuolo dello storico illustre, raccolse per serie d'anni alcune di quelle novelle; (149) e traducendole con eleganza di stile schiettissimo, palesò che la ripugnanza di leggerle in originale deriva per lo più dall'affettazione comune a molti di andar prosando come il Boccaccio. E non per tanto le grammatiche elementari proponevano quasi tutti gli esempi dal Decamerone, e i fazioiulli in luogo di regole imparavano le eccezioni della sintassi. Forse era meglio che avessero ignorato anche il nome del libro. Nè per mutilato che lo leggessero, perdevano d'occhio i passi, i quali, come il pomo del facondo serpente, forse allettarono più d'un' Eva. Spesso lo studio della lingua e dello stile fu pretesto a gratificare l'immaginaiione de' lettori di fantasie alle quali tutti propendono e sono costretti a dissimularle; nè le novelle del Boccaccio avrebbero predominato su la letteratura, se fossero state più caste. L'arte di additare cose bramate e vietarle adula insieme ». cu ed irrita le passioni, e giova ellicacemente a governare la coscienza e de' fanciulli e de' barbati e de' prudentissimi vecchi.

I Gesuiti per adonestare l'uso ch'essi facevano del Decamerone ne' loro collegi, indussero per avventura il Bellarmino a giustificare nelle sue controversie le intenzioni dell'autore. Fors' anche interpolarono quegli argomenti, come altri parecchi, nelle edizioni del Bellarmino ogni qualvolta le sue dottrine non si uniformavano agli interessi dell'Istituto. (150) Inoltre è probabile che favorissero un libro famoso per le in essi nascessero ad occupare la giurisdizione di tutte. Anzi il Bellarmino perdonò meno assai che il Boccaccio alla fama delle vecchie congregazioni; e benchè— altri a difenderle chiami quel suo Gemitus Columboe apocrifo (151) -- fu stampato a ogni modo, mentre ei viveva, fra l'opere sue. Per altro il Boccaccio aveva fatto ammenda a' monaci e a' frati, e alle reliquie nel suo testamento. E quanto a' costumi, ei sentì che gli uomini lo credevano reo, ed espiò le Novelle con pena più grave forse che non era la colpa; (152) e diresti che le scrivesse indotto dal predominio d'una donna; forse quella ch'ei poco dopo rinnegò diffamandola nel Laherinto d'Amore. Comunque si fosse, scongiurava i padri di famiglia a non permettere il Decamerone a chi non avea per anche perduto la verecondia.

Queste parole -- "non lasciate leggere quel libro; e se pu è vero che voi per amor mio piangete nelle mie afflizioni, abbiate pietà, non foss'altro, dell'onor mio," (153) -- avvalorano la probabilità ch'egli avesse aboliti gli autografi, e che il Mannelli ricopiasse da un esemplare non riconosciuto dall'autore. Se non che nè pure quel codice fu esaminato innanzi che l'Inquisizione esigesse mutilazioni nelle ristampe. La prima intera che fosse poscia fatta con qualche cura, fu riveduta in Londra da Paolo Rolli, sul testo de' -- Giunti del 1527; poichè la lezione attribuita al Mannelli niuno potè mai raffrontarla liberamente sino all'anno 1761. Allora alcuni gentiluomini con sovrumana perseveranza la pubblicarono in Lucca. L'ortografia fu religiosamente copiata ne' suoi moltissimi errori, che essendo simili a moltissimi degli stampatori non si laciavano discernere facilmente. Pur nondimeno collazionando più volte le parole, le sillabe, e le lettere del manoscritto e del torchio, e non guardando alla spesa di ristampare ogni foglio dov'era corsa un'inavvertenza, que' letterati liberali vincevano la più ardita fra quante prove furono mai tentate dall'arte tipografica. Ma un codice, anche stampato, è lettura malagevole a molti; e però le edizioni d'allora in qua, o non se. ne giovano. più che tanto; o conformano l'ortografia all'uso moderno; o professano di stare in tutto al Mannelli, ma rimutano qua e là molte cose imputandole a errori della stampa di Lucca: e non dicono il vero.

L'uomo dotto che attese all'edizione di Parma intendendo di preservare la lezione del Mannelli e agevolarla al più de' lettori, se ne giovò da maestro. (154) La precedente del Vitarelli vi s'attiene più rigorosa, se non in quanto raddoppia le consonanti ne' più de' vocaboli che nel Codice, e nella loro etimologia, e nell'uso della lingua Italiana le domandano semplici. Se non che gli editori si richiamano in tutto all'autorità del Salviati; (155) e non pare che s'avvedessero ch'egli applicava a' libri degli antichi la pronunzia del dialetto Fiorentino nè più nè meno come lo udita parlato a' suoi giorni. Oltre di che s'appigliarono a troppi espedienti d'accenti che moltiplicando i segni all'ortografia la confondono. Infatti sono arbitrarj di loro natura, perchè si stanno sconnessi dalle forme e da' suoni dell'alfabeto; nè so come gli editori professino d'aver copiato il Mannelli senza alterarvi un accento. (156) Il Codice n'è senza del tutto; il che forse è men male che l'adoperarli dove pur non bisognano. Or nell'edizione Veneziana veggo invariabilmente venìa, leggiadrìa, villanta, e tutti gli altri -- Iddio, quì, quà, què', ò, à, ài, ànno, per ho, ha, hai, hanno. Vero è che il Mannelli le scrive talor con la h, e più spesso senza; ma io l'ho serbata per timore d'ambiguità, e per amore delle origini delle parole che sono fedelmente additate da quella h malarrivata; e per odio d'ogni intrusione d'accenti. A me, se il libraio non guardasse a' dilettanti piuttosto di edizioni nitide, che di anticaglie grammaticali; piacerebbe di starmi in tutto alla stampa di Lucca; non però mi sono mai dipartito dalla sua lezione ne' vocaboli; bensì della ortografia non ho preservato se non tanto che basti a. farla osservare in molti de' suoi strani accidenti. Chi dunque troverà rusignuolo e usignuolo, e il lusignuolo nella stessa novella, (157) e ad ogni poco cent'altre parole scritte in più guise, non s'affretti ad apporle a negligenza di correzione. Comunque pronunziassero nel secolo XIV, è oerto che la loro penna non poteva sempre arrendersi alla pronunzia; e fin anche lo stesso individuo è chiamato Pietro e Piero -- Josepho e Giusepho -- Fortarrigo e Fortarigo, e Forte Arrigo -- e nell'ultima novella del libro, Marchese di San Luzzo, e San Luzo, e Saluzzo; e il suo parente, Conte di Panago e Pagano, benchè dalla traduzione Latina del Petrarca pare che il nome vero fosse Panico. Forse la sola uniformità nel Codice, e che pur non ostante partorì discordie fra gli editori, trovasi nella particella congiuntiva. Non è scritta a lettere d'alfabeto, bensì con una abbreviatura nella quale altri veggono et -- altri ed -- e taluni e. Or questo pare a me più probabile; e solo dove le troppe vocali domandano puntello, posi ed. Chè se quel segno s'avesse da proferire et, infiniti versi dove si trova ne' codici si leggerebbero senza metro. Ho lasciato qua e là, come ve le ha poste il Mannelli, dolfe e dolve per dolse; e porti plurale di porta; e sì fatte curiosità, che sarebbero peggio che antiche, se alle volte non fossero spie in tutte le lingue a trovarne le prime fonti.


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(1) Introd. alla Giorn. iv. pag 343, di quest'Ed.

(2) Conclusione, pag. 961.967.

(3) Salviati Gram. Lib. i. -- Avvert. Lib. ii. c. 12.

(4) Bartolom. Cavalcanti, e il Muzio Lett. Lib. iii.

(5) Librum tuum, quem nostro materno eloquio, ut opinor, olim iuvenis adidisti, nescio quidem unde vel qualiter ad me delatum vidi. Epist. praef. Lib. de Obedientia ac Fide Uxoria.

(6) O Musae, o Laurus, o sacrae fata Poesis! et vere Musas atque Poesim et sacra Laurus Boccatii nostri fletus tangit. Heu mihi quis admodum pascua cantabit? quae sexdecim eclogis adeo eleganter celebravit ut facile possumus eas, non andeo dicere Bucolicis nostri Francisci, sed veterum aequare laboribus vel praeferre. Presso il Manni Illustr. del Dec. pag. 135.

(7) Lettera del Boccaccio a Pino de' Rossi.

(8) Et quandocunque dabatur nobis confabulandi facultas, quod rarissimum tamen erat, et propter occupationes meas, et proptes molem et aetatem rusticationemque Ioannis. -- Epist. Colutii ad Brossanum de interitu Boccatii.

(9) Biblioth. Med. et Inf. Latinitatis, vol. i. lib. ii. p. 68.

(10) Acta Sanctorum Maii, tom. vii., pag. 228.

(11) Sancti Petri Petronii Vita a Sancto Johanne Colombino Italice scripta, a Bartholomaeo Senensi exornata. -- Vedi anche la Vita Ital, del Beato Petroni, Venezia, 1702.

(12) L'originale incomincia: - Magnis me monstris implevit, frater, epistola tua, quam dum legerem, stupor ingens cum ingenti moerore certabat. Uterque abiit dum legissem. Quibus enim oculis, nisi homentibus, tuarum lacrymarum tuique tam vicini obitus mentionem legere potui, verum nescius omnino, solisque inhians verbis? Ubi demum in rem ipsam internosm flexi oculos, defixigue, mutatus illico animi status, et stuporem seposuit et moerorem.

(13) Decam. de' Deputati, della Ediz. de' Giunti, 1573.

(14) Giorn. VI, Nov. 10

(15) Item reliquit, et dari voluit et assignari Monasterio fratrum S. Marie de S. Sepulchro del Poggetto, sive dalle Campora extra muros civitatis Florentie omnes et singulas Reliquias sanctas quas dictus D. Joannes magno tempore, et cum magno labore, procuravit habere de diversis mundi partibus.. Testamento del Boccaccio presso il Manni Illustr. pag. 115.

(16) Ed. Giunti 1573

(17) Giorn. I. Nov. X, Giorn. VI. Nov. I.

(18) Nardi Stor. Fior. Lib. ii. an. 1496, 1497.

(19) Manni Illustr. del Dec., pag. 637, ed. Fior.

(20) Manni Illustr. pag. 640.

(21) Varchi, Ercolano, tom. ii. p. 196, ed. Mil.

(22) Della Volg. Ling. Lib. I. 12.

(23) Machiavelli, Discosrso intorno alla Lingua, sul principio.

(24) Giovanni della Casa, Vita del Card. Bembo.

(25) "Ho impetrata l'assolutione del voto che voi faceste de Libris Gentilium non legendis ed avvene Sua Santità data la benedizione sua sopra, con questa condizione che lo diciate al vostro confessore il quale ve ne abbia a dare alcuna penitenzia quale ad esso parerà." Bembo, Lett. Lib. ii. a Trifone Gabrieli.

(26) "Non sarà uom che giudichi ch'elle (allude a due lettere in latino) siano di monaco, o per dire più chiaro di frate -- dolet maculam jam per tot saecula inustam illi hominum generi, di non sapere scrivere elegantemente. Bembo, Lett. Lib. v. all'Arcivescovo di Salerno.

(27) Giovanni della Casa, Vita del Card. Bembo.

(28) Bembo, Della Lingua Volgare, passim -- Varchi, Ercolano -- Salviati, Avvert. su la lingua del Decam.

(29) Pref. de' Deputati alla Correzione del Decam. -- Ed. 1573.

(30) Bembo, Lett. Vol. ii. Lib. iii. al Rannusio.

(31) Della Casa, Vita del Card. Bembo.

(32) Della Lingua Volgare. Lib. i.

(33) Lettere, Vol. iii. Lib. v. a Bonaventura Orselli. -- Vol. ii. Lib. iii. al Rannusio.

(34) Iliade, Lib. ii.

(35) "Andando di male in peggio venne l'opera ad essere talmente alterata, che fu d'uopo pensare al riparo per via de' Fiorentini." -- Manni, Illustr. p. 642.

(36) Opere del Machiavelli, Tom. i. p.4, Ed. Mil.

(37) Salviati, Pref. al Decam. Ed. 1582.

(38) Segni, Stor. Fior. Lib. xi. Vol. ii. p. 343. Ed. Mil.

(39) Bembo, Opere, Tom. ix. p. 6, Ed. Mil.

(40) Varchi Ercol. Tom. i. pag. 61. Ed. Mil. Ove non s'ha da credere a Monsignor Bottari annotatore, il quale di quest'Abate, e dell'Archipoeta di Papa Leone fa un solo buffone. L'Abate chiamavasi Baraballo; e l'Archipoeta, Camillo Querno.

(41) Jovii Elog. vi. -- Jortin's Life of Erasm. pag. 218. seg.

(42) Bembo, Lett. Vol. ii. Lib. iii. al Rannusio.

(43) Dibdin, Bibliographical Decameron, vol. iii. pag. 60. Bibliotheca Spenceriana, iv. p. 77. and the Supplement, p. 53.

(44) Pref. al Vocabolario, sez. iv.

(45) Le Grazie, Dialogo pubb. intorno al 1812, o non molto dopo in Verona.

(46) Pref. alle Annot. de' Deputati alla Correzione.

(47) Proem. alle Annot. de' Deputati alla Correzione del Dec.

(48) Lettera Dedic. del Corbinelli.

(49) Avvertimenti su la lingua del Decam., vol. i. lib. iii. c. 4.

(50) Pref. al Vocabolario della Crusca, sez. viii.

(51) Principj della Teologia di Ippofilo da Terra Negra. Miscell. Lipsien. Nova. vol. i.

(52) Muratori, Antich. Estensi. tom. ii. c. 13.

(53) Varchi, Stor. Fior. Lib. xvi. sul fine.

(54) Segni, Varchi Stor. Fior. passim.

(55) Giorn. vi. Nov. 3.

(56) Tiraboschi, Stor. Lett. tom. vii. lib. i. c. 4.

(57) Sed licet nos, aut Angelus de coelo evangelizet vobis, praeterquam quod evengelizavimus vobis, anathema sit. Paul. ad Gal., c. I. 8.

(58) Ad Gal. c. II. 11--—14.

(59) Times, April 4th, 18--25.

(60) Pompon. Apologia Bonon. 1518.

(61) Lettere di Principi, vol. iii. a Marc'Antonio Micheli, dicemb. 1535.

(62) L'edizione è in 4to. del Giolito, procurata dal Dolce e dal Sansovino in Venezia; non so l'anno.

(63) Menagio, Origini della Ling. Ital. p. 139.

(64) Istruzioni al Gran Duca Cosimo I. presso il Manni. Illust. p. 653.

(65) Novelle Letterarie di Firenze, 26 Maggio, 1752.

(66) Manni. Illustr. pag. 637--—661. dov'ei ne registra quarantotto, e gli erano ignote alcune della libreria Pinelliana venduta in Londra. -- a Catalogue of the magnificent and celebrated Library of Maffei Pinelli, 1789, pag. 156--—157.

(67) Jac. Morelli. Codici della Lib. Nani, p. 123.

(68) Opuscoli raccolti dal Calogerà, tom. i. Lettera intorno al Decam.

(69) Castelvetro, Correzioni al Varchi, p. 57 et seg. Ed. di Basilea.

(70) Opusc. del Calogerà, Lettera cit.

(71) Vedi nelle Rime del Lasca Accademico Fiorentino, la Sonettessa,

Come può fare il Ciel brutta bestiaccia.

(72) Documenti citati alla pag. xxviii.

(73) Salviati, Avvert. su la Lingua del Decam. vol. i. lib. ii. c. 12.

(74) Badajuolo non è nel Vocab. forse da bajulus, facchino.

(75) Presso il Manni. Illustr. pag. 421.

(76) Varchi, Stor. Fior. lib. xv. an. 1536.

(77) Presso il Sarti, Storia de' Professori di Bologna, passim.

(78) Dante, De Volg. Eloq., lib. I, cap. X, seg.

(79) Essays on Petrarch. ii. 15.

(80) Giorn. iv. Introd.

(81) Avvertimenti della Lingua sopra il Decam. vol. i. pag. 246, Ed. Mil.

(82) Ivi. pag. 185, e spesso ne' capitoli precedenti.

(83) Ivi. pag. 249.

(84) V. nella Prefazione del Vocabolario dell'Alberti citata una Frottola del Sacchetti.

(85) Avvert. vol. i. p. 18.

(86) Ivi. pag. 247.

(87) Ivi. pag. 246.

(88) Monete di cui il Vocabolario della Crusca, (Ediz. prima) e il Menagio (Orig. della Ling. Ital.) ed altri trovano l'etimologia in bis e sanctus. In molte d'esse monete, d'oro, d'argento, e di rame preservate oggi in Grecia ed appese al collo de' bambini a guardarli dalle malie, si vede l'Imperatore Costantino ed Elena sua madre, e una croce. Dante ne vide dissotterrare in Toscana una stajo d'argento finissimo (Convito) ma pare che fossero diverse, e anteriori al cristianesimo: pur ei le chiamava Santelene forse con voce popolare assegnata a molte monete correnti in Toscana innanzi che i Fiorentini coniassero il loro fiorino (Vedi G. Villani Croniche). E perchè venivano da Costantinopoli a' tempi delle crociate traevano il nome, non forse da due santi, bensì da Bisanzio.

(89) Dal lat. Vervex; onde rimase a' francesi brebis, e pecora agli Italiani da pecus.

(90) Novelle Antiche, LVI.

(91) Novelle Antiche, LXXXI.

(92) Libro di Novelle e di bel parlar gentile. Ed. Fiorent. 1778-1782. Nov. LVI, e la Nota.

(93) Purgat. VIII. 76.

(94) Heroidum, xix. 5—.--16.

(95) Della Casa, Vita del Bembo.

(96) Bembo, della Lingua Volg. lib. ii. sez. ult. verso la fine.

(97) Della Casa, Vita del Bembo.

(98) Avvertimenti su la Lingua, vol. I. pag. 244. Ed. Mil.

(99) Avvertimenti su la Lingua, vol. I, pag 245.

(100) Ginguéné, Hist. Litt. d'Italie, tom. III. pag. 87. seg.

(101) Introduzione, pag. 8.

(102) Tucid. lib. ii. 48, ult.

(103) History of the Aeolic Digamma. -- Discorso sul Testo della Divina Commedia.

(104) Fiammetta, lib. IV.

(105) "Di gran nazion non fosse. G. 7. N. 6. -- Lo scolar lieto -- più ch' altr'uom lieto. G. 8. N. 7. -- Vestir di buoni panni -- comar portava -- il compar tornò. G. 7. N. 3. -- E fu trent'anni addietro atticismo degli ultimi Gesuiti V. Le Opere del Roberti, del Bettinelli, del Conte Giovio, e di molti altri di quella scuola.

(106) Macch. Discorso su la Lingua.

(107) La parola alle volte solamente come ripieno s'intreccia. Salviati, Avvertim. su la Lingua, lib. ii. 1.

(108) Sperando, se modo avesse di parlarle senza sospetto, dovere aver da lei ogni cosa che egli desiderasse, ...... pensossi di volere suo compar divenire. E accontatosi col marito di lei, per quel modo che più onesto gli parve, gliele disse. G. 7. N. 3. Parrebbe da quel gliele ch'ei lo dicesse alla moglie, ma lo disse al marito; ed è sconcordanza non pure del Boccaccio e di quell'età, ma solenne al dialetto Fiorentino, e scansata di rado. E intra gli altri, li quali con più efficacia gli vennero gli occhi adosso posti, furono due dipintori -- e poco dopo: E Bruno conoscendolo in poche di volte che con lui stato era, questo medico esssere uno animale. G. 8. N. 9. Nel primo esempio tu non intendi, se non leggi e intra gli altri, adosso li quali, e nel secondo il lo appiccicato a conoscendo sgrammaticamente ripete il questo.

(109) Il Giudeo rispondeva che niuna ne credeva nè santa nè buona, fuorchè la giudaica..... nè cosa sarebbe, che mai da ciò il facesse rimovere. Giannotto non istette per questo, che egli, passati alquanti dì, non gli rimovesse somiglianti parole. G. 1. N. 3.

(110) Adunque se così son vostro, come udite che sono, non immeritamente ardirò di porgere i prieghi miei alla vostra altezza, dalla qual solo ogni mia pace, ogni mio bene, e la mia salute venir mi puote, e non altronde, e siccome umilissimo servidor, vi priego, caro mio bene, e sola speranza dell'anima mia, che nello amoroso fuoco, sperando in voi, si nutrica, che la vostra benignità sia tanta e sì ammollita la vostra passata durezza verso me dimostrata, che vostro sono, che io, dalla vostra pietà riconfortato, possa dire che come per la vostra bellezza innamorato sono, così per quella aver la vita la quale, se a' miei prieghi l'altiero vostro animo non s'inchina, senza alcun fallo verrà meno, e morronimi, e potrete esser detta di me micidiale. G. 3. N. 5.

(111) Conciossiacosachè tu incominci pur ora quel viaggio, del quale io ho la maggior parte, siccome tu vedi, fornito; cioè questa vita mortale; amandoti io assai, come io fo, ho proposto meco medesimo -- Della Casa; Galateo, Introd.

(112) Filosofo filosafo -- purgatorio purgatoro -- desiderio disiderio -- fratelli frategli, anzi il Varchi tien sempre il vezzo fanciullesco di cavagli, per cavalli, balzegli, ribegli, e sì fatti -- munistero, monastero -- stromenti, strumenti, stormenti -- enterrò e mosterrò per entrerò, mostrerò -- gliele per glieli -- vuol per vuoi: non segno i luoghi, perchè il Decamerone ne ridonda.

(113) Venevate vedavate, facciavamo; e di tutti gli altri, vedi nel prospetto de' verbi irregolari del Mastrofini; non però ebbe opportunità di notare le inflessioni storpiate dagli affissi -- godianci per godiamci -- fallo per farlo -- ismarille, vogliallo, per ismarirle e vogliamlo, -- innamorami per innamoraìmi -- mostrami per mostraimi -- nominalo per nominailo; onde per non indurre altri in equivoco m'è convenuto dipartirmi dal Manelli, e segnare innamora'mi, mostra'mi e nomina'lo, pag. 359 a mezzo, 862 verso la fine, e 873 lin. ult. di quest'Ediz. -- e per distinguere tenne, usurpato per tienne dove nella stessa catena di frasi tenne è nel suo significato regolare, ho scritto tènne e tenne pag. 708 verso la fine; e questi ricordi facciano avvertire altri luoghi.

(114) Armenia, Erminia -- Virgilio, Vergilio -- Siciliano, Ciciliano -- Venezia, Vinegia -- alberi, arbori, che starebbero bene quando gli uni fossero maschio, e gli altri femmine; ma il Decamerone li lasciò ermafroditi; e talvolta è scritto arberi; anzi d'un solo corso di penna, messe le tavole sotto vivaci arbori, agli altri belli arberi, vicine al laghetto, G. 7. Introd. pag. 588, su di che i critici emendatori contendono (vedi la nota del Tom. VI. dell'edizione di Parma, 1813. pag. 146.): non so, nè come possono conciliarsi, se prima non cambiano il testo; nè cosa si volesse il Boccaccio: pare a ogni modo ch'ei non intendesse di assegnare lo stesso significato per l'appunto ad arbori ed arberi; e talvolta il Mannelli scrive albori in danno degli albori dell'aurora -- castigo, gastigo; questa permutazione della c. e della g. somministra misere dovizie alla Crusca -- così anche denfire, difinire, diffinire -- bacio, bascio -- visitare, vicitare --—— raccogliere, ricogliere -- chiunche, dovunche, e sì fatti, e il Varchi n'è innamorato invece di chiunque dovunque -- e il Davanzati risquotere quore per riscuotere e cuore -- e il Bembo sempre openione; il Varchi oppenione; il Salviati opinione; ma il Salviati cheunque, gli altri qualunque: e comechè molte di queste voci sian oggi costrette a scrittura uniforme, più molte tuttavia lussureggiano accarezzate in grazia della varietà che ne risulta alla locuzione; e chi sel crede ti cita il Vocabolario.

(115) Machiavelli, Op. vol. ix. pag. 158. Ediz. Mil. Lett. al Guicciardini, XVIII.

(116) Vincevano nei principali ugici uomini negletti e davano, come si dice, basso —— Mandò a rovinar quell'uomo e quella repubblica ed andò come si dice, di bello -- Il Principe d'Oria disse, tardi veniste; o, come si dice, dopo otta -- Fattasi una importantissima pratica sopra il mandato da darsi agli Ambasciadori, Lorenzo Segni vivamente si scoperse e levò il dado, come si dice. Questo quanto a' modi di dire, e li vedo in poche pagine della Vita del Capponi scritta dal Segni, pag. 350—360, ediz. Mil. -- e quanto a' proverbi, basti uno dalla storia del Varchi, lib. XV, vol. V, pag. 257 delle sue opere, ed.iz. di Mil. -- Affinechè l'Imperatore non s'aquistasse ragione sopra la libertà di Firenze, e gli bastasse d'avere ad approvare, e confermare quello ch'essi deliberavano, e non essi quello che fusse stato deliberato da lui, come dicono i volgari con quel proverbio plebeo, un conto facea il ghiotto, e un altro il taverniere.

(117) Lezioni negli Atti dell'Accademia della Crusca, an. 1819, vol. I, pag. 85—112.

(118) Era (l'Arcivescovo di Firenze) veramente meccanico, d'animo tanto più tosto gretto e meschino, che avaro, e di tale più tosto sordidezza e gagliogeria, che miseria, che tutto il fatto suo non era altro, che una non mai più udita pidocchieria. Varchi, Storia, lib. XIII, poco dopo il principio. [Opere, ed. cit. vol. V, pag. 10]

(119) Siamo venuti a curare eziandio una troppo più sconcia magagna come era quella di valersi del medesimo esempio a confermazione di due voci diverse leggendolo diversamente, e quasi acconciandolo a capriccio secondo il bisogno. Pref. degli Accad. alla prima Ristampa del Vodab. della Crusca.

(120) Tra l'altre cose ch'io apparai a Parigi, si fu nigromanzia della quale per certo do so ciò che n'è -- e poco dopo: io n'ebbi troppo d'una: G.VIII, N. 7, francesismi pretti: je sais ce qui en est -- j'en ens trop d'une, attribuiti dal Boccaccio allo scolare che aveva studiato a Parigi; e da' grammatici, alle eleganze Italiane.

(121) Per lo più a' nomi battesimali femminili prepone l'articolo; talvolta lo concede e lo nega alla stessa donna, e chiamala or la Lauretta or Lauretta; in una sola novella scrive senz'articolo sempre Lisabetta (N. 5, Giorn. IV); e benchè i nomi de' maschi ei li lasci con più uniformità senz'articolo, pur trovi per bizzarria in un'altra novella Gerbino e il Gerbino (N. 4, Giorn. IV); e il Castelvetro n'assegna ragioni sottili (Giunte al Bembo, Su la lingua, vol. II, pag. 225, seg., ediz. Mil.), e il Salviati (Azzert. su la Lingua del Dec., lib. II, cap. 13 e seg.) regola uno per uno que' casi e altri molti con un precetto: e le sono, a credergli, cose utili e dilettevoli; ma chi le intende?

(122) Sigonii Opera, vol. VI, pag 1000 seg., ediz. dell'Argelati.

(123) Vedi l'Orazione, De Latinae Linguae usu retinendo.

(124) Foscarini, Della Letteratura Veneziana, lib. III, pag. 252 e seg.

(125) Salviati. Avvert. su la Lingua del Decam., lib. II cap. 12 in fine:vol. I, pag. 247, ediz. Mil.

(126) Varchi, Ercolano. -- Apost. Zeno, Annot. al Fontanini, vol. I, pag. 35.

(127) « Ce sont là les effets que les secrets des savans, mal à propos découverts aux peuples, ont produits chez les Romains, et dont l'exemple serait aussi périlleux à notre monarchie, qu'il a été dommageable à cet Empire. -- Ce (que l'on trouvera) dans un traité de politique à qui j'ai donné le nom de La France, ou la Monarchie parfaite » . -- Presso Bayle, art. Belot, nota B.

(128) Pellisson, Hist. de l'Acad. Franc., pag. 195 e seg.

(129) Suetonio, I, 6; II, 15; III, 8; IV, 4

(130) Hist. Nat., -- Epist. ad Vespasianum.

(131) Segni, Storia, lib. XI, vol. II, pag. 337, ed. Mil.

(132) Storia dell'Accad. dei Rozzi, ediz. di Siena, 1755, nei Documenti.

(133) « Nessun Fiorentino era in pregio appresso di questo principe, o pochi, e non i migliori; ed erano adoperati in cose basse e non in cose da nobili, e di cittadini usi ad esser liberi. Pareva bene che amasse i virtuosi, e ne faceva segno alcuna volta piuttosto colle parole che co' fatti; coneiossiachè essendovene pure alcuni, nessuno ne fu da lui aiutato, onorato, o sollevato, se non leggermente. Agli adulatori era tahnente benevolo che non gli restavano altre facultà per dare agli altri » . Segni, loc. cit.

(134) Foscarini, Della Letter. Venez., lib. III, pag. 397, note 188, 189

(135) Proemio de' Deputati alle Avvert. dell'edizione del 1575.

(136) La Lettera fu pubblicata nella ediz. del Rolli. 1727.

(137) Lettere del Cieco d'Adria, 20 gen. 1579. d Salviati, Dedic. del Decamerone.

(138) L'ediz. del Salviati uscì nel 1582, in Firenze; la prima del Grotto non so dove nè quando; ei morì nel 1585.

(139) Tiraboschi. Stor., vol. VII, lib. III, cap. 5, sez. 36

(140) Vedi dietro, pag. x (307)

(141) Manni, Illustr., pag. 659.

(142) Avvert., vol. II, lib. III, cap. I, particelle I, pag. 19, ediz. Mil

(143) Avvert., vol. I, lib. I. cap. ult.; -- lib. II, cap, 12.

(144) Vocabolario Cateriniano. -- Lettere del Gigli stampate dopo il Dio del padre Cotta, ediz. di Nizza.

(145) Documenti inseriti negli Atti dell'Accademia della Crusca, Firenze, 1819, pag. LXXI, n. 2

(146) Discorso su la Lingua, Opere, vol. X, pag. 385, ediz. Mil

(147) Considerazioni di Galileo su la Gerusalemme Liberata. -- Vedine la storia nella Vita di T. Tasso del Serassi, vol. I, II, pag. 200—365 sgg.

(148) Notizia de' Novellieri Italiani della libreria Borromeo. Bassano, 1774.

(149) The Italian Novelists, by Henry Roscoe, 4 volumes. London, 1825.

(150) Fuligatti nella Vita in Latino del Card. Bellarmino.

(151) Alegambe, Bibliot. Soc. Jesu, pag. 400 seg. -- Philadelphius, De Jesuitarum moribus, apud Mayer, De Bellarmini fide, pag. 198

(152) Existimarunt enim legentes, me spurgidum, lenonem, incestuosum senem, impurum hominem, torpiloquum, maledicum, et alienorum scelerum avidum relatorem. Non enim ubique est, qui in excusationem meam consurgens dicat: juvenis scripsit, et majori coactus imperio. Questa lettera, trovata cori altre nella Libreria di. Siena, fu pubblicata dal Tiraboschi Stor., vol. V, lib. III, cap. II, sez. 5.

(153) Cave igitur iterum meo monitu precibusque, ne feceris -- Parce saltem honori meo, si adeo me diligis, ut lacrimas in passionibus meis egendas. Lett. cit.

(154) Parma, dalla stamperia Blanchon, 1814, volumi VIII

(155) Prefazione ec. -- Venezia, 1813, volumi 5

(156) Prefaz., pag. VII.

(157) Giorn. V, Nov. 4







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