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AI NOVELLI REPUBLICANI
 

A GIOAN–DIONIGI FOSCOLO
 

Eccoti un oda che ti si spetta perché ispirata dall'amore di libertà. Ei ti guida alle schiere di Bonaparte, e tu fra i soldati repubblicani morrai forse felice veggendo le patrie bandiere annunziar la vittoria. Nè la mia sorte è già dubbia: io mi resi santo il proposito di morir con la libertà, e di espormi contro il furore della licenza prima motrice di tirannia: difficile impresa ma degna di tutti i liberi. Io gli invito a seguirmi, e sieno più feroci di me, ch'io sarò lor seguace. Ove ciò sia non dei più temere della vera repubblica. I democratici deliberati atterriscono tutti i popoli: noi sarem liberi veracemente o morremo. — Salute
TUO FRATELLO

[Credo adattata a quest'oda la lettera scritta a Tullio da Marco Bruto. Ella nel Consolo, e nell'Oratore di Roma, ci funge l'uomo malfermo, e quindi il non vero Repubblicano.

 

MARCO BRUTO A CICERONE

   SALUTE

   A te non duole il tiranno; bensì ti duole il tiranno nemico. soffrire un servaggio piacevole; ecco tuo scopo. Quind'è che mi pinsi fra gli ottimi l'Addottivo di Cesare. Ma sai tu pure che i nostri padri sempre abborrirono signoria benché mite. Per me non ho ancor divisato ne riposo, ne guerra; ho bensì fermamente proposto di non servire. Meravigliomi che il timor d'una guerra civile l'orror tutto ti sgombri d'una pace dannosa ed infame. Soqquadrasti la tirannide di Marc'Antonio, e chiedi perciò in mercede quella del Figlio di Cesare, sta sano.

Versione da Plutarco nella vita di Bruto]



      Questo ch'io serbo in sen sacro pugnale,
io l'alzo, e grido a l'universo intero:
« Fia del mio sangue un dì tepido e nero
ove allontani le santissim'ale
dal patrio cielo Libertà feroce ».
Già valica mia voce
d'Adria le timid'onde,
e la odono eccheggiando
le marsigliesi sponde.

      Voi, che ignari di voi, già un tempo feste
di mille regi sanguinarii al soglio,
cui cingeva Terror, Morte ed Orgoglio,
sgabello eccelso de l'oppresse teste;
e de gli ottimi al sangue inutil pianto
(di tirannide vanto!)
mesceste a' pie degli empii;
sorgete: il giorno è giunto
di vendetta e di scempii.

      A l'armi! Enteo furor su voi discende
che i spirti sgombra, e l'alme erge ed avvampa
e accesa in ciel di ragion la lampa,
vi toglie a gli occhi le ingannevol bende.
Ché ragion, figlia di dio, v'invita
a vera morte, e addita
i rei petti esecrandi
ove, « piantate », grida:
« In fin a l'elsa i brandi ».

      Tremate? e invece d'inimico sangue
lacrime infami il ferro imbelle gronda?
A che di civil quercia augusta fronda
chieder, se ardor civile in sen vi langue?
— Baciar vi veggio, e tergere col crine,
o spartane eroine,
le piaghe de' feriti
figli, e vantar la morte
de' padri e de' mariti! —

      Ma Genio intanto a noi scende di pace,
e con la destra un ramuscel di ulivo
alza, e dolce cantando inno giulivo,
scote con l'altra man candida face;
e de le morte età la tacit'ombra
col puro lume ei sgombra,
e sul sublicio ponte
mostra il secondo Gracco
pallido e cupo in fronte.

      Tu fuggi, o Caio? e ov'è la tua possanza
e il tuo repubblicano almo furore?
e del divino tuo tenace core
la mai non atterrita ov'è fidanza?
Nudasti il brando; e su le sarde porte
presentasti la morte:
tuonasti il vero; e doma
al tuo parlar tremonne
la senatoria Roma.

      Quando a l'orror di notte taciturna
del tuo spento fratel lo immane spetro
coi crin su gli occhi, e sanguinoso e tetro
surse del Tebro da l'incognit'urna;
al lampeggiar di livido baleno
voce da l'imo seno
trasse e gridò: « Che stai?
T'alza; tuo fato è scritto:
di mia morte morrai ».

      E dal fatal suo genio a man guidato
le agrarie leggi e le virtudi antiche
chiamasti al popol vulgo ornai nemiche,
e più nemiche del tiran senato:
Ma Roma freme; e fra tremendi carmi
suonan tremende l'armi:
or dove cerchi scampo?
Perché l'acciar non vibri
che ti fé primo in campo?

      Ma voce fra '1 lontan spazio de gli anni
Mi dice: « Infame è chi nel patrio petto
immerge il ferro per la patria stretto
onde balzar dal soglio empii tiranni:
o padre, o padre! ne l'elisie sponde
cinto di triste fronde
scendo, ma non mi vedi
di civil sangue lordo
né fra regali arredi ».

      pur non vi lece le mal–ferme spade,
o di novella libertà campioni,
ripor, che caldo da i calcati troni
a stilla a stilla ancora il sangue cade:
— Sia pace: — Armati di terror la faccia,
pronte a ferir le braccia
aggiate intanto, o prodi:
cadran sepolte e nulle
le tirannesche frodi.

      Vile è il torpor ch'a intiepidir vostr'alme
al molle avvezze infame empio servaggio,
piove, e cieche le rende al divin raggio
di Libertà ch'auro diffonde e palme:
folle è la Fama, e mille ha orecchie e lingue,
nè il falso e il ver distingue;
quindi ministra ornai
d'oligarchica rabbia
sogna menzogne e guai.

      E guai sien pur: né sol a Grecia e a Francia,
né sol a Fabii ed a i roman cavalli,
vincer fu dato i Sersi e gli Anniballi
alto–squassando la funerea lancia.
E noi liberi siam. — Ben l'universo
sia contro noi converso.
forse sol degno è Cato
di morir con acciaro
a Libertà sacrato?



EDIZIONE DI RIFERIMENTO: "Ugo Foscolo - Opere - Tomo I", edizione diretta da Franco Gavazzeni, Riccardo Ricciardi Editore, Milano-Napoli, 1974







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